«Nella serie “Per Elisa – Il caso Claps” mi hanno colpito il rigore professionale della magistrata Rosa Volpe e il rapporto che si crea con Gildo Claps. In “Noi siamo leggenda”, invece, come in “Ternitti”, lo spettacolo teatrale tratto dal romanzo di Desiati, il mio ruolo è legato all’Eternit, che adesso è una delle mie battaglie. Vivere tanti personaggi diversi è il privilegio di essere attori». A raccontarlo è Giusy Frallonardo, attrice pugliese che interpreta la magistrata Rosa Volpe nella serie “Per Elisa – Il caso Claps” (Rai) e che presto sarà ancora in tv con “Noi siamo leggenda” (Rai). Presto reciterà anche nella serie “Il maresciallo Fenoglio” e nel film “La luce della masseria” (entrambi Rai). Negli ultimi anni ha interpretato personaggi in “Buongiorno mamma” e in “Viola come il mare” (entrambi per Canale 5) e “La porta rossa 3” (Rai). Al cinema esordisce ne “Il sogno della Farfalla”, mentre gli ultimi lavori sono “Una vita spericolata” e “Cattiva Coscienza”. È anche ideatrice, con Enrico Romita, di “Hell in the cave”, interpretazione dell’inferno dantesco che da dodici anni e mezzo va in scena nelle Grotte di Castellana.
Giusy Frallonardo, nella serie “Per Elisa – Il caso Claps” interpreta Rosa Volpe, la magistrata che ha riaperto e risolto il caso. Cosa l’ha colpita di più del suo ruolo?
«Due cose mi hanno colpito. La prima è il grande rigore professionale: quando Gildo Claps si presenta, lei è molto titubante a riaprire le indagini, per non mettere in discussione il lavoro di una collega. Ma quando si rende conto che non era stato minuzioso, entra in una crisi vera, perché sa che Gildo Claps ha ragione, ma lei non può dimostrarlo».
E il secondo aspetto?
«Il rapporto che si crea fra lei e Gildo: lui è “soltanto” una persona che chiede giustizia, ma la travolge con il suo fervore e la sua passione. Lei dice una frase bellissima: “Ho visto compagni, colleghi distruggersi per andare alla ricerca di una giustizia impossibile da raggiungere. Lei è vicino al baratro, non ci finisca dentro”. Rosa Volpe è una grande donna».
Qual è stato il momento più delicato da interpretare?
«Quando ha dovuto dire a Gildo di fermarsi. In poche battute, bisognava fargli sentire calore all’interno di un grande rigore professionale. Per la prima volta lei lo chiama per nome: si crea un corto circuito umano. E poi il momento in cui ha dovuto mostrare alla famiglia i reperti».
Quanta empatia è servita da parte degli attori?
«È impossibile non empatizzare con il vero Gildo e la vera Filomena. Sono persone di una dignità e di una perseveranza straordinarie. Il signor Claps non voleva proventi dalla serie e quindi li ha devoluti per un ospedale in Congo, perché il desiderio di Elisa era quello di fare il medico in una missione: così sente di aver onorato la sorella. È una persona incredibile».
Ed è anche una serie molto intensa.
«È piena di attori, perché la vita è piena di persone. E poiché è uno spaccato di vita, ci sono tanti personaggi che la famiglia Claps ha incontrato, nel bene e nel male».
Si è aperto un periodo in cui la vedremo spesso in tv, a cominciare da “Noi siamo leggenda”. Qual è il suo legame con il ruolo stavolta?
«Il legame con il mio ruolo stavolta è l’Eternit. Valentina Romani, una delle protagoniste, si batte per far emergere un’ingiustizia legata al lavoro di sua madre e di quella del mio personaggio, Giorgia, due donne che si sono ammalate di mesotelioma pleurico. Questa, adesso, è anche una delle mie battaglie principali».
Come mai?
«Perché porto in scena uno spettacolo, “Ternitti”, tratto dal romanzo finalista al Premio Strega nel 2011 di Desiati, la cui vena poetica entra nelle parole del romanzo. Mi sono innamorata del personaggio di Mimì la prima volta in cui l’ho letto».
Cosa le ha scatenato?
«I morti di Casale Monferrato hanno avuto un “riconoscimento”, quelli di cui parla “Ternitti” no, perché sono gli emigranti del Sud Italia, persone senza voce, i “sacrificabili” del secolo scorso, sfruttati in massa in queste fabbriche dove lavoravano a mani nude e petto nudo, senza nessuna precauzione contro l’amianto. Quando ho visto le immagini di questi operai è stato terribile».
Uno spettacolo che invita a riflettere?
«È anche una storia d’amore, perché non si può buttare in faccia al pubblico solo il dolore. Però bisogna riflettere. In questo momento storico bisogna fermarsi a riflettere. Dobbiamo avere più consapevolezza, perché ci tiene insieme e ci dà la possibilità di creare un piccolo movimento d’opinione, ponendo attenzione agli altri. Come diceva Leopardi ne “La Ginestra”, dobbiamo sentire la solidarietà umana, perché siamo come formiche laboriose che cercano di star bene. Ma se una mela marcia cade e distrugge il formicaio, l’unica reazione possibile è lo stare insieme, sentire l’umanità».
Tornando alla tv, ci sarà l’interpretazione in “Il maresciallo Fenoglio”.
«Nella prima puntata, la mia è la storia volano della grande storia di cui si occuperà il maresciallo Fenoglio: si occuperà della mafia foggiana, una delle più atroci e silenti. Credo che in quella zona della Puglia si sia vissuta veramente la mafia, perché è di tipo antico, legata alla transumanza, radicata sul territorio. La Capitanata vive la cappa della cultura mafiosa, che è oppressiva, terrificante e priva anche di un pensiero libero».
Come ci si adatta a ruoli così diversi?
«È bellissimo. È il privilegio di fare l’attrice. Io sono una lettrice vorace e quando leggo divento i personaggi che leggo. Mi appassionano tutti, buoni e cattivi, ma sono sempre dalla parte dei buoni perché sono un’inguaribile romantica. Entro nelle storie e quando recito posso entrare in quei personaggi: è una meraviglia. Anche se si ha una vita semplice, sulla scena e sul set si vivono tantissime vite. È impagabile, è il motivo per cui, come dice Shakespeare, siamo fatti della stessa sostanza dei sogni: sbagliamo perché il nostro amore è evanescente, ma, come i sogni, viviamo in maniera scintillante».
In “Fenoglio” gioca in casa.
«Mi succede raramente (sorride, ndr). Sono un’attrice pugliese che, non per mia volontà, frequenta poco i set pugliesi. Amo la mia terra. Sono felice di aver lavorato con tanti bravissimi attori pugliesi nella serie su Elisa Claps. Se riuscissimo a essere granitici, ad avere quell’ideale dell’ostrica di cui parlava Verga, saremmo una potenza, perché la Puglia è una vera factory di attori. È una terra di grandi potenzialità, nel teatro e nel cinema».
Ma non è finita, perché la vedremo anche ne “La luce della masseria”.
«In questo momento è ancora un po’ lontana, ma anche questa è una storia bellissima, perché è un ritorno alle radici, è il momento di passaggio dalla civiltà contadina a quella del benessere. È il periodo in cui avevamo il sogno e la speranza di costruire una grande nazione».
A proposito di poliedricità, è anche ideatrice di “Hell in the Cave”. Come è nata l’idea della rappresentazione dell’Inferno dantesco?
«Nasce dalla mia passione per Dante Alighieri, che ho conosciuto alle scuole medie ed è diventato il mio più grande amore letterario. Alla bottega teatrale di Vittorio Gassmann abbiamo lavorato sulla “Divina Commedia”, dal verso alla metrica. È stato meraviglioso. E quando sono tornata in Puglia, avevo voglia di fare uno spettacolo su Dante».
E come ci è riuscita?
«Per caso, portando degli amici fiorentini nelle grotte, ho alzato gli occhi al cielo e ho visto la grave. Ho pensato al pertugio tondo, una delle ultime battute del 34esimo Canto dell’Inferno. Da lì mi sono incaponita e quando ho incontrato Enrico Romita, che voleva fare uno spettacolo nella grotta perché da bambino aveva avuto paura di quella “voragine infernale”, ci è venuta l’idea. Lui ha elaborato il progetto di uno spettacolo stanziale, di un’offerta che fosse, allo stesso tempo, culturale e turistica, perché approcciare le bellezze architettoniche o naturali con un valore artistico centuplica il potenziale di quel luogo».
Ormai sono dodici anni e mezzo che va in scena.
«È un’esperienza sensoriale, come ha detto uno dei primi spettatori, un signore inglese per il quale, se lo spettacolo fosse stato sulla West Coast di Londra, sarebbe durato trent’anni. Abbiamo raccolto la sfida. Quando gli attori pugliesi tornano in Puglia, si infilano il costume e fanno una replica, perché “Hell in the Cave” è la loro casa e noi lasciamo sempre le porte aperte».