«Mi sento responsabile della bellezza del mondo». Daniela Distefano, restauratrice barese, fa sue le parole di Marguerite Yourcenar nel suo romanzo “Memorie di Adriano” del 1951 per raccontare il suo vissuto. Titolare di un laboratorio a Bari in cui svolge (per enti pubblici, religiosi e collezionisti privati) attività di conservazione e restauro di beni culturali di interesse storico e artistico in diversi settori, è abilitata a svolgere interventi sulle superfici decorate dell’architettura, sui manufatti dipinti su supporto tessile e ligneo e su quelli scolpiti in legno, arredi e strutture lignee.
Daniela Distefano, ogni tipologia di opera d’arte necessita di una specializzazione?
«Oggi assolutamente sì, finalmente abbiamo un albo professionale, per ora provvisorio, ma almeno iniziamo a mettere ordine nel mare magnum di artigiani o sedicenti restauratori privi di titoli per operare nel settore, riconoscendo invece la professionalità di chi li possiede».
Da sempre affascinata da questo mondo, Daniela si laurea in lettere classiche a indirizzo storico-artistico e archeologico (all’epoca a Bari non c’era la facoltà di beni culturali), tracciando, con la scelta degli esami da sostenere, il suo percorso per diventare restauratrice. Subito dopo, un corso triennale di specializzazione in restauro di dipinti a Firenze, concluso nel 1996; da allora e fino al 2003 lavora per la Soprintendenza di Urbino e, nel frattempo, avvia la collaborazione con la Curia tarantina. Torna a Bari nel magico momento del risveglio della Città Vecchia, grazie al “Piano Urban”. Dal suo racconto traspare tutta l’emozione della giovane donna che allora si affacciava alla vita e al lavoro dei suoi sogni, e che rivive negli occhi della cinquantenne di oggi, ancora felici e determinati, solo più consapevoli di aver scelto una vera e propria missione.
Era nel cuore pulsante della storia dell’arte italiana, con proposte di lavoro anche dall’estero, ma lei ha scelto Bari Vecchia?
«Sono tornata a Bari non sicura di volerci restare. Poi, grazie ai fondi regionali per l’imprenditoria giovanile, ho colto l’opportunità di aprire il mio laboratorio nel cinquecentesco Palazzo Gironda. Bari Vecchia è stata generosa con me, ho avuto la chance e l’onore di collaborare a lungo con la Basilica Pontificia di San Nicola e con la chiesa di Santa Scolastica al Porto».
Quali opere le sono rimaste più nel cuore?
«Sono due grandi sculture lignee policrome, due crocefissi: uno della Basilica (quello attualmente nella navata destra, portato in processione durante la Settimana Santa ad anni alterni) e uno di San Gregorio (ora sull’altare maggiore). L’operazione più significativa è stata quella della pulitura, che ha permesso di individuare una stratigrafia complessa, isolando una serie di livelli successivi di intervento. Bisogna pensare che queste opere d’arte ci giungono attraverso i secoli quasi mai integre, anzi, solitamente dopo una serie di manomissioni».
Cosa si prova a prendersi cura di tesori di quella portata?
«E’ un’emozione incredibile e una responsabilità enorme, che solo preparazione tecnica, esperienza, studio, e cautela, ma anche l’amore infinito, ti consentono di bilanciare».
Amore per il suo lavoro, per l’arte e soprattutto per le testimonianze che lei si impegna a perpetrare nel tempo.
«Infatti. Tante volte mi viene rivolto il complimento: “Sei proprio un’artista”, invece no, ed è una distinzione importante: l’artista esprime il suo linguaggio interiore, il suo sentire; diversamente, il restauratore o la restauratrice intuisce e riconosce arte e bellezza create da altri e offuscate dalle ingiurie del tempo, dall’abbandono o da colpi maldestri inferti da mani incaute; il suo lavoro è, dunque, nel riportarle alla luce, con un paziente lavoro di scavo e di attento studio, affinché possano splendere a pieno».
La parte più amara del suo mestiere?
«Vedere opere magnifiche abbandonate a sé stesse e all’incuria dopo un restauro». Daniela racconta di diverse opere, anche a Bari (non ultimo il grande fregio in gesso di Francesco Barbieri a Palazzo Dioguardi, già sede della Banca Commerciale Italiana, oggi trasformato in negozio di abbigliamento) alla cui vista le si stringe il cuore, non tanto nel veder vanificato il suo lavoro di restauro, ma nel vedere l’abbandono e la totale mancanza di rispetto in cui versano. «Spesso si sente dire “la bellezza salverà il mondo”: però alla bellezza chi ci pensa? È responsabilità di tutte e tutti noi averne cura; salvarla vuol dire salvare la nostra storia, la nostra cultura, noi stessi, il nostro futuro».