Claudia Attimonelli, ricercatrice dell’Università Aldo Moro di Bari (riconosciuta dall’Istituto Italiano della Cultura di Montreal, come eccellenza della ricerca italiana), nonché docente di Immaginario, media e cultura digitale nel Dipartimento di Scienze della formazione, psicologia, comunicazione, non ha dubbi: «Noi siamo una generazione che sarà longeva, e i più giovani si dovranno prendere cura di questa fetta di mondo; quindi abbiamo il dovere di accompagnarli, renderli sensibili, non demonizzarli, altrimenti avranno di noi una terribile considerazione». Claudia insegna anche al Dipartimento di Sociologia dell’Università di Montpellier, è fondatrice di Mem (Mediateca Emeroteca Musicale) di Bari, collabora con gallerie, istituzioni e teatri. Accanto alla vena accademica, afferma, «ve n’è una totalmente ballerina: adoro trovarmi nei rave o nei club e danzare la musica elettronica, a volte incontro anche studentesse e studenti».
Ed è proprio la musica elettronica, insieme alla ricerca e all’interesse (come mamma e docente) per le nuove generazioni, al centro della sua ultima “fatica”, condivisa con Caterina Tomeo: “L’elettronica è donna. Media, corpi e pratiche transfemministe e queer”, appena pubblicato da Castelvecchi Editore.
Claudia Attimonelli, dobbiamo dedurre che c’è maschilismo anche in ambienti all’avanguardia come quello della tecno?
«Ad ottobre scorso abbiamo organizzato in Università un seminario su “Gender ed elettronica”, alla presenza del Rettore, indirizzato soprattutto alle ragazze, da cui abbiamo preso spunto per la parte finale del libro: c’erano ragazze che non avevano mai avuto la possibilità di dire che facevano le dj, c’erano dj trans, ragazzi che avevano voglia di togliersi di dosso un po’ di pregiudizi rispetto alla “tecnofobia delle donne”. È stato un momento di crescita e scambio molto bello».
Gli stereotipi di genere sono così radicati da inquinare anche le culture giovani?
«Le donne per secoli non hanno avuto accesso a luoghi di sapere; e, se accadeva, era sempre per diventare brave studiose, maestre, esecutrici. Non è mai stata data loro una spinta alla creazione, tipicamente legata, invece, al mondo maschile. Di conseguenza, quando si sono affacciate a questo universo, lo hanno fatto in un modo molto trasversale, attraverso un’esperienza che si son dovute costruire da sole. Le forme di inibizione subite sono, però, state generatrici di pratiche tutte al femminile che, a partire dall’errore nella sperimentazione e dalla mancanza di modelli femminili, ha creato un aspetto molto sperimentale e molto femminile di praticare la cultura elettronica, secondo me molto in linea con il nostro tempo. Il fatto di mettersi in gioco attraverso identità sempre mutanti risponde a questa fase molto sperimentale della nostra epoca in cui le donne sono, effettivamente, quelle che si lanciano di più. Tanto che adesso c’è in ballo una sorta di spinta orgiastica, cioè, si può fare tutto, anche commettendo tanti errori. “L’elettronica è donna”(e, per donne, intendo tutta la comunità Lgbtq+) è una modalità per comprendere che, attraverso l’errore, si può accedere a una forma di conoscenza non patriarcale».
Claudia viaggia molto, raccoglie esperienze culturali emergenti e le porta a Bari, per far sì che i e le nostre giovani possano goderne, anche incontrando artisti internazionali. «Gli studenti ne hanno bisogno, altrimenti diventa tutto grigio e noioso. Soprattutto dopo il lockdown per me è diventata una missione farli uscire di casa, per alternare la loro vita elettronica a quella in carne e ossa, perché devono esserci entrambe».
Degli altri libri che ha scritto, in particolare “Porno cultura. Viaggio in fondo alla carne” (Ed. Mimesis), a quattro mani con Vincenzo Susca, ha riscosso notevole successo, soprattutto all’estero. Come mai secondo lei?
«Viviamo in un momento in cui, se apriamo i profili Instagram soprattutto di giovani donne, c’è chi ha la sensazione che siano delle narcisiste, sempre in pose molto erotiche. In realtà è un’altra maniera per demonizzare un momento storico in cui le donne stanno cercando in qualche modo di riprendersi i propri spazi e la propria visibilità, scegliendo il modo per farlo. Vanno accompagnate, soprattutto le più giovani, perché rischiano di essere ancora una volta additate, giudicate per quello che fanno. È importante essere acconto a loro e ai loro coetanei, senza pregiudizi, perché altrimenti non li capiremo; e non capiremo neanche che fine faremo noi».
Claudia Attimonelli è ricercatrice e docente universitaria. Sui generis. E meno male.
Forse scomoda per un certo perbenismo tradizionalista barese ma preziosa per contribuire al salto di qualità culturale che è in corso, di cui i nostri e le nostre ventenni sono già consapevoli. E che Bari merita.