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Antonella Carone, volto noto di Inchiostro di Puglia: «Fare l’attrice è una sfida continua con me stessa»

«Le scelte personali nella creazione dei personaggi sono quello che più mi appassiona del mio mestiere». A spiegarlo è Antonella Carone, attrice polignanese di cinema e teatro, nonché uno dei volti di “Inchiostro di Puglia”. Quando ha capito che sarebbe diventata un’attrice? «Non lo si capisce mai quando si diventa un’attrice: è un lavoro che…

«Le scelte personali nella creazione dei personaggi sono quello che più mi appassiona del mio mestiere». A spiegarlo è Antonella Carone, attrice polignanese di cinema e teatro, nonché uno dei volti di “Inchiostro di Puglia”.

Quando ha capito che sarebbe diventata un’attrice?

«Non lo si capisce mai quando si diventa un’attrice: è un lavoro che ci pone sempre in sfida con noi stessi. Non c’è una meta in questa professione, almeno per come la concepisco io. È ricerca e studio costante, porsi continuamente degli obiettivi che, una volta raggiunti, devono essere subito superati. È un lavoro in cui non ci si sente mai arrivati».

Ma le è stato chiaro che era il suo obiettivo?

«Già da piccolina. Ho sempre avuto una vocazione per la scena in senso lato, mi è sempre piaciuto esibirmi davanti a qualcuno, ero una “piccola esibizionista” (ride, ndr). Poi è arrivato il mio primo corso di teatro, organizzato dalla scuola. La formazione teatrale nelle scuole è molto importante. Da quel momento, iniziando a studiare e a capire come funzionava la macchina scenica, ho capito che era quello che volevo fare nella vita, che era il sogno che avrei voluto inseguire. Spostare sempre l’obiettivo credo sia il modo più onesto per fare questo lavoro».

Cosa preferisce tra cinema e teatro?

«Sono due mondi totalmente diversi. Il teatro ti dà la gratificazione immediata di un pubblico che ti ascolta, ti manda indietro l’energia e le vibrazioni che tu dai stando sul palco. Con il cinema ottieni la gratificazione in un secondo momento. Il teatro è ancora legato a una dimensione di artigianalità. Ma le differenze si annullano con il lavoro di costruzione del personaggio, che tu abbia davanti la pagina di un copione o lo stralcio di una sceneggiatura, nel leggere tra le righe e crearne uno nuovo e originale. Una sfida comune a entrambi i lavori. Le scelte personali nella creazione attoriale sono l’aspetto che più mi appassiona nel mio mestiere».

A proposito di personaggi interpretati, quale le assomiglia di più nella realtà?

«Fortunatamente nessuno (ride, ndr), perché ritengo noioso portare al cinema e sulla scena le istanze personali. A me piace conoscere aspetti dell’essere umano più lontani da me, e più lo sono e più mi appagano, perché così il lavoro di ricerca e di creazione diventa più “saporito”. Tutti i personaggi interpretati finora sono molto diversi da me, dalla cattiva Perfidia alla mamma di “Spaccapietre”, lavoratrice nei campi, ma anche altri personaggi a teatro».

Come si è preparata per recitare il ruolo della cattiva Perfidia?

«Sapevo che avrei dovuto dare una chiave più cartoon al personaggio. Mi sono divertita ad accentuare alcuni caratteri per renderlo meno naturalistico ma allo stesso tempo credibile nella finzione. Così come dovevo essere cattiva senza spaventare i bambini, una cattiva un po’ buffa e un po’ pasticciona, ma credibile. Dovevano credere alla sua malvagità senza spaventarsi. Credo sia stato questo l’equilibrio più difficile da raggiungere».

Tra i suoi maestri ci sono Dario Fo e Franca Rame. Cosa ha imparato da loro?

«Ho imparato cosa significa essere attori ed essere artisti. La loro scuola era un luogo aperto, terreno di confronto e di scambio. Mi hanno trasmesso il loro essere tutt’uno con l’essere artisti. Una perfetta simbiosi tra la loro vita, le loro scelte, battaglie politiche, sociali civili e il teatro, concepito come una missione ma allo stesso tempo come qualcosa di attivo. L’insegnamento più grande è quello di essere attori attivi e artefici del proprio essere attori. Avevano questa concezione dell’essere artisti molto concreta, quotidiana, pratica».

Il suo ritorno in Puglia significa che questa regione offre tanto nel mondo del cinema e del teatro?

«Sì, negli ultimi anni ha offerto molto di più in ogni ambito, tanto da assistere ai “cavalli di ritorno”, perché c’è un terreno fertile su cui lavorare. La Puglia per me ha significato la possibilità di lavorare quotidianamente, mentre grandi città come Roma possono risultare dispersive, abituando all’attesa e a fasi di stallo. In Puglia mi sono riconciliata con la dimensione di dinamicità e quotidianità, essere sempre in movimento, svegliarsi la mattina e sapere che si ha sempre qualcosa da fare».

Possiamo dire che la sua è una di quelle storie raccontate da “Inchiostro di Puglia” (di cui lei è uno dei volti), degli spaccati di pugliesità?

«La mia collaborazione è nata quando il patron di Inchiostro di Puglia, Michele Galgano, mi chiese di raccontare la mia storia, con tutte le apparenti contraddizioni annesse. Per chi fa questo mestiere, nella concezione comune, nel momento in cui torni nella tua terra, stai ammettendo quasi un fallimento. Io invece mi definisco un’attrice pendolare, perché dalla Puglia raggiungo Roma e viceversa in una giornata. La dimensione perennemente in movimento l’ho sublimata in questo modo. E così nascono la mia collaborazione e il format “Ti devo dire un fatto”, in cui diversi personaggi hanno raccontato la propria esperienza di “pugliesità”».

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