Angelo Massaro, 21 anni in cella per un’intercettazione interpretata male: «Sì, lo Stato mi ha torturato»

«Mi hanno condannato nonostante ci fossero le prove della mia innocenza: ora i magistrati di Taranto devono chiedermi scusa pubblicamente e spiegare le ragioni di due sentenze vergognose». A parlare è Angelo Massaro, il pugliese vittima di un clamoroso errore giudiziario che l’ha tenuto in galera per ben 21 anni. I fatti risalgono al 15 maggio 1996, quando Massaro, sposato e padre di due figli, venne arrestato con l’accusa di aver ucciso l’amico Lorenzo Fersurella, scomparso a ottobre 1995. A “incastrare” Angelo fu una telefonata, intercettata dagli investigatori, in cui diceva alla moglie: «Tengo stu muers». Con quella espressione Massaro si riferiva a un macchinario ingombrante che stava trainando in quello stesso momento. Per inquirenti e investigatori, invece, si trattava del cadavere di Fersurella, dunque della prova dell’omicidio. Di lì l’inchiesta, i processi e la condanna definitiva a 24 anni di carcere. Massaro tornerà libero solo nel 2017, dopo la revisione del processo, e successivamente la sua storia diventerà oggetto del docufilm “Peso morto”, scritto da Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi, che oggi viene proiettato e discusso nei circoli e nelle scuole di tutta Italia.

Come ha vissuto i 21 anni in cella da innocente?

«Con rabbia. Quella mi ha fatto andare avanti e ancora oggi mi spinge a lottare affinché nessun altro patisca ciò che ho patito io. Anche un solo giorno in carcere da innocente è grave e per questo i magistrati devono pagare. Ho sempre avuto e conservo la fiducia nella magistratura, anche perché la stragrande maggioranza di pm e giudici lavora con coscienza, ma quelli che sbagliano devono pagare».

Che cosa sente di dire ai magistrati?

«Devono chiedermi scusa. E devono farlo in un incontro pubblico, spiegando le motivazioni di condanne irragionevoli. Mi hanno attribuito un “totale disprezzo della vita della persona”, sostenendo che avessi ucciso il mio amico nonostante mancassero movente, arma del presunto delitto e cadavere della vittima. Poi hanno sostenuto che mia moglie e io fossimo “inclini al crimine”, quando invece mia moglie non ha mai preso nemmeno una multa per divieto di sosta. Ecco perché i magistrati di Corte d’assise e Corte d’assise d’appello devono delle scuse a me e spiegazioni a tutti i cittadini».

Lei si è proclamato innocente durante questa odissea?

«Sempre. Davanti a magistrati, forze dell’ordine e in tutte le carceri in cui sono stato recluso, ho sempre urlato la mia innocenza. Non ho mai accettato accuse e condanne, mi sono sempre battuto per i miei diritti. E per questo sono stato bollato come “ribelle”, “polemico”, “contestatore”. Lo Stato mi ha torturato e, nel tentativo di estorcermi la confessione di un reato mai commesso, mi ha offerto permessi premio e il trasferimento in strutture detentive più vicine alla mia famiglia. Non mi sono mai piegato, tanto è vero che sono tornato in libertà nel 2017 sebbene avessi avuto la possibilità di uscire già nel 2008».

Com’è la vita in carcere?

«Difficile da descrivere. Le strutture sono fatiscenti. In spazi di meno di tre metri quadrati sono costrette a vivere quattro o più persone. C’è più spazio per gli animali nelle stelle che per i detenuti in carcere. A Carinola avevamo il bagno alla turca, a Catanzaro il bagno a vista. In inverno si tende ad accendere il riscaldamento soltanto per poche ore per risparmiare; in estate, nel carcere di Taranto, mancava spesso l’acqua corrente ed ero costretto a usare quella in bottiglia per lavarmi. Per acquistare un pacco di piatti in plastica spendevo 5,20 euro, per un chilo di pomodorini ho dovuto sborsare nove euro».

Qual è il carcere peggiore in cui è stato recluso?

«Sono stato a Foggia, Carinola, Taranto, Melfi e Catanzaro. Il peggiore in assoluto è stato quello di Taranto: mancava continuamente l’acqua ed ero punito per qualsiasi cosa. Spesso mi ritrovavo in cella di isolamento dove c’erano soltanto brandina con materasso, sedia, tavolino e, in alto, una finestra con gli infissi rotti che lasciavano passare il gelo durante l’inverno e l’afa in estate».

Qual è l’episodio che più le ha fatto male?

«Dopo la morte di mio fratello, chiesi il permesso di partecipare al funerale. Il giudice me lo accordò, ma l’amministrazione penitenziaria si mise di traverso sostenendo che io fossi troppo pericoloso. Protestai sedendomi a terra e non muovendomi di lì, poi il giudice intervenne e chiarì di essere l’unico deputato a pronunciarsi su certe richieste. Alla fine la situazione si sbloccò, ma io non ebbi la possibilità di partecipare al funerale di mio fratello».

Come giudica il carcere?

«Una tortura. Lo Stato fa violenza gratuita sui detenuti. Per anni ho lavorato come spesino e portavitto per otto ore al giorno, ma lo Stato me ne pagava soltanto due. Potevo fare soltanto una telefonata di dieci minuti a settimana ed ero costretto a contare i secondi per parlare con mia moglie, i miei figli e mia madre. Così il carcere non rieduca, anzi spinge a delinquere non appena si torna in libertà. Bisognerebbe spiegarlo ai politici che invocano l’ergastolo, ma soprattutto ai magistrati: vadano a farsi un giro in certi penitenziari e capiscano in che razza di inferno vivono i detenuti».

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