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Altro che Grey’s Anatomy: «Faccio tutto con passione»

«Ricordo ognuno dei miei pazienti, come persone, non per la patologia». In questa frase di Luciana Marzella, 46 anni, di Bitonto, dal 2018 riconosciuta come una delle migliori chirurghe della mano al mondo dall’American Society for Surgery of the Hand di Boston (élite di cui è entrata a far parte, come socia, su loro invito),…

«Ricordo ognuno dei miei pazienti, come persone, non per la patologia». In questa frase di Luciana Marzella, 46 anni, di Bitonto, dal 2018 riconosciuta come una delle migliori chirurghe della mano al mondo dall’American Society for Surgery of the Hand di Boston (élite di cui è entrata a far parte, come socia, su loro invito), c’è già tutto. Tutto quello che chiunque vorrebbe trovare nell’essere umano che sta per curarti: attenzione e ascolto, insieme a preparazione ed esperienza di assoluto pregio. Laureata in Medicina a Bari, oggi è dirigente dell’Unità di Chirurgia della Mano dell’Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano, direttrice del laboratorio di microchirurgia, e consulente per altri ospedali del Gruppo San Donato e per la Clinica Madonnina.

Luciana Marzella, come si raggiungono questi primati?
«Con la passione. Passione è tutto quello che faccio nella vita, in famiglia e al lavoro. Ho sempre voluto fare il chirurgo, già da bambina. E la sensazione che provo quando, dopo averla curata, una persona sta bene, è impagabile, soprattutto dopo un intervento di urgenza per un grave incidente». Perché Luciana si occupa di interventi delicatissimi di reimpianto e ricostruzione di dita, mani e braccia. E un po’ anche della loro vita.
Di che tipo di incidenti si tratta?
«Soprattutto stradali e domestici; le nuove leggi in materia di sicurezza sul lavoro hanno migliorato un po’ le cose su questo fronte. Quando ho iniziato, nel 2006, i traumi sul lavoro erano una quantità enorme; e si potrebbe fare ancora di più con la formazione. Come Società Italiana di Chirurgia della Mano, stiamo lavorando con il Ministero per portare nelle aziende corsi per insegnare cosa si deve o non si deve assolutamente fare: mi è successo di non poter aiutare un uomo arrivato in ospedale con un’amputazione multipla, perché le dita, tranciate da una pressa, erano state messe nel latte, rendendone impossibile il reimpianto».
Come ha scelto la specializzazione?
«Durante l’università, vinsi un concorso per entrare in specialità in ortopedia a Firenze, dove sono rimasta due anni; lì lavoravo sull’arto inferiore, ma scoprii che la mano mi affascinava, appena potevo mi imbucavo nelle sale operatorie dove si facevano quegli interventi, di nascosto dal mio direttore, che me lo impediva. Era misogino, in più io ero meridionale: sono stati due anni terribili».
Come se l’è cavata?
«In questo ambiente, un po’ come ovunque, bisogna capire come porsi, verso le donne spesso c’è pregiudizio. Bisogna crearsi la propria identità, altrimenti vieni schiacciata dai giudizi altrui. Io sono sempre andata avanti per la mia strada. Sono una runner, per me la corsa è metafora della vita: più una sfida è difficile e faticosa più, nel momento di massima stanchezza, do il meglio, aumentando l’andatura e farcela. È una questione di testa».
E il suo sogno?
«Dopo essere tornata a Bari (ancora oggi sono molto affezionata al Prof. Moretti e a tutto lo staff della Clinica Ortopedica), vinsi un bando all’Istituto della mano di Parigi, confrontandomi con i più grandi professionisti della mano del mondo; ciascuno di loro mi rilasciò una lettera di referenze, che mandai al Prof. Alberto Lazzerini dell’Humanitas di Milano, insieme a una lettera assurda, e lui mi assunse, un mese prima che finissi la specializzazione e dopo cinque giorni di prova. Stravolgendo le vite di entrambi. Sono arrivata lì tecnicamente a digiuno, mi ha insegnato tutto Alberto. Ho lavoravo tantissimo, mi sono posta obiettivi di sei mesi in sei mesi, seguendo tutte le tappe (fratture, chirurgia plastica, ricostruzioni estetiche, microchirurgia, tutto), per arrivare alla meta che mi ero prefissata: diventare sua vice».
Prima accennava a uno stravolgimento?
«Dopo due anni, lavorando fianco a fianco ogni giorno e diventando amici, concentrati sulle nostre carriere (sono andata alla Columbia University di New York a studiare microchirurgia), ci siamo dichiarati l’amore reciproco fino ad allora soffocato. Ci siamo sposati nel 2010».
La sua storia inizia ad assomigliare a una versione reale (e migliore) di Grey’sAnatomy.
«Alberto è un uomo fantastico. Crede nelle donne e investe sulla loro identità e professionalità. Per lui non sono mai stata la signora Lazzerini ma la dottoressa Marzella. Crede nella parità e che questa consenta agli uomini di essere migliori. Non siamo quasi mai insieme in sala operatoria, ma quando succede è magico, siamo in simbiosi ma anche in competizione, dando il meglio di entrambi. Alberto è il mio partner, il mio esempio, la persona che vorrei essere. Credo che ci vogliano più uomini così».

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