Il pianista, compositore e direttore d’orchestra italoamericano Antonio Ciacca, ha trascorso infanzia e adolescenza a Volturino, il paese di provenienza della sua famiglia, e a Lucera, iniziando sin da giovanissimo a studiare pianoforte. Il trasferimento a Bologna e poi a New York, dove ha completato la sua formazione musicale, diventando, dal 2007 al 2011, direttore della programmazione jazz al Lincoln Center sotto la direzione di Wynton Marsalis, lo ha portato a stabilirsi negli Stati Uniti. Da quest’anno è direttore artistico del «Lucera jazz&wine festival».
A cosa ha ispirato le sue scelte per la direzione artistica di questo festival?
«Ho voluto dare una panoramica quanto più completa possibile sul fenomeno musicale che noi chiamiamo jazz. E quindi andiamo dagli inizi, da New Orleans, andiamo alla vocalità, con Dena De Rose e Marta De Leo, poi andiamo al jazz europeo con la tradizione di Django Reinhardt, fino al jazz moderno e contemporaneo con la mia band, per dare una panoramica a 360 gradi. Con le edizioni successive ogni anno ci sarà un tema nuovo. Posso anticipare che l’anno prossimo sarà quello del centenario di due icone del jazz come Miles Davis e John Coltrane».
Dal suo osservatorio internazionale, come giudica la situazione della cultura musicale nella nostra regione?
«In Puglia ci sono alcune realtà radicate, come il festival della Valle d’Itria, realtà storiche e importanti come il Petruzzelli di Bari, e personalità molto dinamiche come Gianna Fratta a Foggia o Piero Romano a Taranto con l’orchestra della Magna Grecia, che fanno tantissimo per il territorio. Quando vengo in Puglia trovo una situazione molto articolata con festival più che trentennali. Purtroppo le realtà legate alla politica, o legate a una sorta di feudalesimo di ritorno, perdono energia. Penso a certi festival che vent’anni fa andavano alla grande, alcuni anche in provincia di Foggia, e adesso arrancano e stanno quasi per scomparire. Diciamo che un assessorato alla cultura un po’ più strutturato in Regione potrebbe creare una rete più presente anche a livello internazionale».
Quali sono i punti di forza e i punti su cui invece c’è ancora da lavorare?
«I punti di forza sono sicuramente il talento di ragazzi che incontro e che per me sono eccezionali. Non avendo accesso alle scuole che abbiamo negli Stati Uniti, non so come fanno ad essere così bravi e preparati. Io non ho sotto mano la situazione in maniera tale da poter dire quali sono le cose che si possono migliorare. Sicuramente sarebbe utile un’internazionalizzazione dell’offerta, uno scambio con istituzioni di un certo livello, per esempio con realtà come Groningen in Olanda o Graz in Austria, per creare sinergie con i conservatori italiani che sono un po’ autoreferenziali e chiusi in loro stessi».
È pensabile immaginare, anche grazie alla sua competenza da manager musicale, la realizzazione di un polo di irradiazione musicale nella nostra regione?
«Si potrebbe, certo. Qualche anno fa uscì un articolo di Riccardo Muti che parlava di consorziare le realtà di Napoli per farne una specie di Lincoln Center. Sull’articolo c’era la mia foto, perché io all’epoca ero direttore della programmazione al Lincoln Center, al punto che qualcuno ipotizzò che io diventassi il direttore di questo consorzio per unire il San Carlo, il Teatro Mediterraneo, il Conservatorio e creasse un polo come c’è a New York, sulla 60° strada, dove dodici istituzioni musicali sono raccolte in un unico ombrello che si chiama, appunto, Lincoln Center».
Forse proprio da Lucera, guardando anche oltre l’evento di questo Festival di cui è direttore, si potrebbe ipotizzare una sua presenza e un suo ruolo più stabile in questa regione?
«L’occasione di Lucera Cultura potrebbe servire per creare un polo importante. Però bisogna prima di tutto coordinare le realtà locali. E qui torniamo sempre al problema endemico della nostra cultura, specie nel nostro meridione, che è una specie di retaggio feudale dove ognuno tende a portare acqua al suo mulino e a pensare alle proprie quattro mura senza capire come relazionarsi con realtà al di fuori della propria. Io spero che i ragazzi giovani siano un po’ immuni da questa patologia cronica italiana, specialmente nostra, meridionale, e solo in quel caso si potrà cominciare a ipotizzare un’idea come quella di un polo, non solo jazzistico, ma musicale in generale».









