L’intervista a Fabio Viola: «I videogiochi sono una forma d’arte e di cultura»

Nel mondo della gamification (utilizzo di dinamiche del gioco in contesti non ludici) esiste un solo nome Fabio Viola che ha saputo coniare questa passione alla cultura e al bello, che quotidianamente ci porta verso mondi che altrimenti non avremmo avuto accesso come la mostra PLAY che vedrà grandi artisti in dialogo con videogiochi. Ma inutile perdersi in chiacchiere perché il suo racconto è tutto da scoprire

Chi sei?

«Sono una persona che ha sempre ricercato ossessivamente il gioco e la bellezza nei suoi primi 42 anni di vita».

Da San Giovanni Rotondo al mondo come si fa?

«Credo di esser stato uno dei tanti ragazzi cresciuti negli anni ‘80, in un piccolo paese della Puglia, con la passione dei videogiochi. Ricordo come fosse oggi il Natale del 1987 quando i genitori, dopo lunghe insistenze, decisero di regalarmi un Commodore 64. Da allora la mia vita cambiò: ho guidato più nella vita digitale che in quella fisica, ho salvato migliaia di principesse, ho viaggiato nello spazio. Quelle esperienze, per molti una perdita di tempo, mi portarono ad amare compulsivamente il linguaggio del videogioco che, insieme alla storia ed archeologia, monopolizzò i primi 18 anni della mia vita.

Sfruttando la mia predisposizione per la scrittura durante gli anni del Liceo Classico a San Severo iniziai a collaborare con i primissimi siti internet dell’epoca specializzati in videogiochi. Comprato i giochi, li testavo allo sfinimento e ne scrivevo recensioni avviando un lento percorso da auto-didatta in un’industria ancora molto acerba. Da lì il trasferimento a Pisa per studiare archeologia, all’epoca non vi erano ancora corsi universitari sui videogiochi, e contemporaneamente agli scavi in tutta Italia ed all’estero decisi di fondare la mia prima start up all’età di 22 anni insieme a ragazzi conosciuti nei forum online di videogiochi. Il resto è storia, quasi, recente».

Quando è nata la tua passione per la gamification?

«Il passaggio dall’industria dei videogiochi, dove ho avuto l’onore di lavorare per alcune delle aziende dalle quali da piccino acquistavo i videogiochi come Electronic Arts Mobile e Vivendi Games, alla gamification avvenne intorno al 2010. Progressivamente maturai l’idea che il potere del gaming potesse travalicare il proprio ambito e diventare materia interdisciplinare, per cui ho iniziato un percorso che portasse verso il gioco come generativo di coinvolgimento ed apprendimento».

La cultura e il gioco per te possono coesistere, in che modo?

«Credo che ci sia ancora più bisogno di giocare, contaminare, interagire nell’ambito culturale. Per me i videogiochi sono essi stessi una forma d’arte e di cultura che può entrare nei musei.  Non è un caso che luoghi che hanno deciso di sperimentare nuovi linguaggi, penso al Marta in Puglia o il Mann in Campania hanno ottenuti con progetti come Past for Future e Father and Son dei risultati significativi».

Quali progetti stai curando in questo momento?

«Al momento molte delle mie energie sono focalizzate nel nuovo ruolo di curatore per la Reggia di Venaria Reale vicino Torino. Mi è stata affidata la curatela di una grande mostra dal titolo PLAY che partirà il prossimo 22 Luglio. Per la prima volta grandi artisti come De Chirico o Kandinsky entrano in dialogo con videogiochi iconici creando un corto circuito fisico/digitale in grado di raccontare la complessità del mondo che viviamo ma anche le continuità stilistiche e narrative dei grandi creativi del passato, presente e futuro».

Come rispondono le persone? E i Comuni/Regioni/Università?

«A macchia di leopardo. Più passano gli anni e più mi convinco che le istituzioni pubbliche siano le persone che ci lavorano e la relativa capacità ed entusiasmo nel saper andare oltre le tante burocrazie. Stiamo assistendo a sperimentazioni importanti sui più svariati fronti ma che poi non diventano standard minimi comuni per tutti gli altri enti. Personalmente, da persona esterna, ho ricevuto accoglienze calorose, ci sono molte possibilità per chi ha idee e capacità realizzative anche grazie agli abbondanti investimenti pubblici degli ultimi anni e che continueranno negli anni avvenire grazie al PNRR e linee europee».

Come pensi si possano superare le resistenze derivanti dalla non conoscenza del gaming?

«Solo con una massiccia iniezione di alfabetizzazione ludica e attitudine al rischio ed al fallimento. Si ha sempre paura di ciò che non si conosce, ancor di più un linguaggio molto recente e poco istituzionalizzato come il gaming. Ma è una questione di tempo, quando una intera generazione di genitori sarà cresciuta giocando poi sarà più facile attivare un sano dialogo con i propri figli attraverso una sana comprensione delle potenzialità e delle criticità dei videogiochi».

Il metaverso è un’opportunità o no?

«Il metaverso è parte integrante del nostro futuro prossimo. Potrà spaventare molti, come tanti cambiamenti che hanno scosso la società nel suo fluire, ma siamo di fronte ad una importante convergenza di innovazioni tecnologiche, economiche e sociali. Una nuova infrastrutturazione del vivere in cui le azioni “fisiche” e quelle “digitali” non viaggeranno più su binari paralleli (talvolta in contrapposizione) ma si compenetreranno in modo fluido. Si sono già aperte molte opportunità lavorative, un nuovo ecosistema che ha le sue necessità e richieste di know how e spero l’Italia saprà posizionarsi come apripista e non inseguire ciò che nella prossima decade accadrà».

La Puglia è pronta a giocare con te/noi?

«Da pugliese sono orgoglioso dei progressi che la regione ha saputo fare nell’ultima decade divenendo luogo di tante buone pratiche sia a livello pubblico che privato».

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