“Diario di un autodidatta” è un libro che non concede tregua. Non chiede lettori, non cerca consolazioni. Trascina. Una voce impastata di febbre e fango, che affonda nella propria storia come chi scava a mani nude in un pozzo senza fondo. Alfonso Guida – tra i finalisti con quest’opera al Premio Strega Poesia 2025 – non racconta: espone. Espone la carne, la malattia, il sesso, la colpa, l’infanzia come un campo minato.
Questo non è un libro di poesia nel senso convenzionale del termine. È un’autobiografia in versi, o meglio: un esorcismo. L’io narrante è frantumato, ibrido, lacerato tra un padre che cammina nudo e una madre che urla come una strega negriera. Ogni pagina è una fenditura. Ogni componimento un grumo, un colpo, un residuo di realtà filtrato da una mente che non ha mai smesso di guardare il trauma in faccia.
Il corpo, il verso, la colpa
Qui il lirismo viene disossato. Nessuna patina estetizzante. Solo il linguaggio nudo dell’ossessione, il grottesco che si fa sublime per effetto di accumulo, di insistenza, di verità. “Diario di un autodidatta” è una mappa del dolore, ma senza intento elegiaco: non piange, non prega. Mostra. “Chi muore perde potere. Chi resta rinasce”: è la legge brutale ella parola, dove la sopravvivenza è un atto fisico, un gesto che si fa verso, un corpo che si alza a fatica. C’è una liturgia nel disordine, una teologia spuria che attraversa i versi come una corrente sotterranea. La poesia si fa corpo: tremante, sporco, abbandonato, desiderante. La parola non è più ornamento ma ferita aperta. Il libro si legge come si ascolta una voce che non può essere zittita: una testimonianza senza sconti, un atto estremo di sopravvivenza. “Sono rimasto. Resterò per sempre, fino alla fine dei tempi.”
L’innocenza che sopravvive
Nelle pagine dell’opera si danza accanto alla follia, si ride con le prostitute, si ama tra le lenzuola di un ospizio, si bestemmia nei corridoi dei manicomi. Ma c’è una purezza incandescente, un’innocenza che resiste sotto la crosta. “Sono un bambino buono/ urlavo, muto.” Ed è forse in quel grido senza suono che il libro trova il suo centro.
Alla fine resta solo questo: una scrittura che non ha più paura di nulla. Nemmeno della verità. Nemmeno di sé stessa.