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“La Xylella. Distruzione e rinascita degli olivi”, Lavarra: «Il contagio si poteva fermare» – L’INTERVISTA

È stato presentato ieri a Palazzo dell’Acqua il libro La Xylella. Distruzione e rinascita degli olivi, di Enzo Lavarra, insieme all’economista Gianfranco Viesti, al presidente di Puglia Culture Paolo Ponzio, e a Domenico Laforgia e Francesca Portincasa, rispettivamente presidente e direttrice generale di Acquedotto Pugliese. Nel suo libro c’è un capitolo dal titolo molto forte:…
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È stato presentato ieri a Palazzo dell’Acqua il libro La Xylella. Distruzione e rinascita degli olivi, di Enzo Lavarra, insieme all’economista Gianfranco Viesti, al presidente di Puglia Culture Paolo Ponzio, e a Domenico Laforgia e Francesca Portincasa, rispettivamente presidente e direttrice generale di Acquedotto Pugliese.

Nel suo libro c’è un capitolo dal titolo molto forte: «Omissione di soccorso». A cosa si riferisce esattamente?

«Mi riferisco a quanto accaduto tra il 2014 e il 2015, quando come Parco delle Dune Costiere, insieme ai sindaci della Piana degli ulivi monumentali – Carovigno, Ostuni, Fasano, Monopoli – alle associazioni professionali olivicole e ai GAL Alto Salento e Valle d’Itria, organizzammo numerose assemblee pubbliche con agricoltori e cittadini. Chiedevamo una cosa molto semplice: il decentramento del comitato fitosanitario regionale al confine tra Oria e la Piana, dove l’emergenza stava esplodendo. La risposta dell’assessore pro tempore fu che mancavano personale e risorse adeguate. Io parlo di omissione di soccorso perché, se paragoniamo l’epidemia delle piante a una pandemia per le persone, allora le piante avrebbero meritato misure straordinarie, come è avvenuto per il Covid. Quelle misure non ci sono state».

Qual è stata, secondo lei, la conseguenza più grave di quella mancata risposta?

«La conseguenza è stata drammatica: non aver costruito una barriera efficace al confine tra Oria, Carovigno e la Piana ha consentito al batterio di superare un punto di contenimento fondamentale. Questo ha determinato il contagio della Piana degli ulivi monumentali, un patrimonio unico al mondo, e la successiva diffusione verso nord, fino ad arrivare nell’area barese. Era un passaggio che poteva essere evitato o almeno rallentato in modo significativo».

Nel libro lei utilizza anche l’espressione «primum vivere», riferendosi a scelte individuali che hanno prevalso sull’interesse collettivo. A chi si riferisce?

«Mi riferisco a una tendenza antiscientifica che ha pesato enormemente. Alcune associazioni che si definivano ambientaliste hanno promosso una visione ideologica e retrograda, rifiutando l’idea dell’abbattimento delle piante infette nella prima zona di contagio. Era una scelta dolorosa, certo, ma rappresentava il male minore: intervenire subito, quando il contagio era ancora molto contenuto, avrebbe significato salvare il resto della Puglia olivicola. Invece si è anteposto un interesse immediato, identitario o politico, a una visione complessiva fondata sui dati scientifici».

Uno dei momenti più controversi di quella fase fu il piano Silletti, che prevedeva abbattimenti nella zona cuscinetto ed è stato oggetto di ricorsi e proteste. Come lo giudica oggi?

«Va ricordato un elemento che spesso viene rimosso: accanto alle proteste ci furono anche imponenti manifestazioni a favore del piano Silletti. Nel basso Salento nacque il comitato “La voce dell’ulivo”, che organizzò assemblee molto partecipate e giornate di sensibilizzazione. La stragrande maggioranza degli agricoltori aveva compreso che ci si trovava davanti a misure estreme, sì, ma necessarie. Il piano non era una scelta ideologica, bensì una risposta emergenziale a un fenomeno che non aveva precedenti».

Guardando al futuro, qual è oggi la sfida principale per l’olivicoltura pugliese, anche alla luce del piano olivicolo nazionale ancora incompiuto?

«Il rischio è quello di perdere definitivamente una tradizione produttiva che garantisce qualità e reddito. Si parla di tavoli nazionali, ma in Italia spesso i tavoli si moltiplicano senza produrre risultati concreti. Intanto non competiamo più solo con la Spagna: sul mercato globale dobbiamo confrontarci con Paesi come la Turchia e altri grandi produttori. Se a questa competizione aggiungiamo il deserto lasciato dalla Xylella, il quadro diventa drammatico. È urgente avviare davvero un piano per i reimpianti, soprattutto ora che le cultivar resistenti hanno dimostrato di essere produttive».

Esistono già segnali positivi o modelli su cui costruire una ripartenza?

«Sì, e vanno valorizzati. Nel basso Salento, tra quest’anno e il prossimo, si raccoglieranno migliaia di quintali di olive provenienti da piante resistenti: è un dato di fatto, non un auspicio. Inoltre bisogna credere in modelli di sviluppo integrato, come quello del distretto agroalimentare ionico-salentino, l’AIS, che unisce reimpianti, diversificazione colturale e valorizzazione del patrimonio archeologico e paesaggistico. E infine serve fiducia nella scienza: non solo per individuare nuove cultivar resistenti, ma anche per arrivare a strumenti di contrasto diretti al batterio, una sorta di “vaccino” contro la Xylella. Da questa tragedia la Puglia può trarre una lezione e candidarsi a diventare il centro di un network mediterraneo di ricerca e cooperazione, anche attraverso l’Istituto Agronomico Mediterraneo, per affrontare insieme i patogeni legati ai cambiamenti climatici e agli scambi globali».

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