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“L’avvenire dura a lungo”, la mente terribile di Louis Althusser come un grande lunapark degli orrori

L’avvenire dura a lungo di Louis Althusser (Edizioni Medhelan) non è un’autobiografia, non è un’opera letteraria, non è un fascicolo processuale. È un crimine, raccontato con la penna di un filosofo che, invece di andare a giudizio, si mette in analisi. Da solo. È la storia di un uomo che non ha mai saputo chi…
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L’avvenire dura a lungo di Louis Althusser (Edizioni Medhelan) non è un’autobiografia, non è un’opera letteraria, non è un fascicolo processuale. È un crimine, raccontato con la penna di un filosofo che, invece di andare a giudizio, si mette in analisi. Da solo. È la storia di un uomo che non ha mai saputo chi fosse, se non attraverso gli occhi degli altri. Un uomo che ha amato una donna per trent’anni e l’ha strangolata, un mattino di novembre, mentre le massaggiava il collo. Althusser ha scritto queste pagine dopo aver evitato il tribunale per «incapacità di intendere e di volere», ma con una lucidità che spaventa. Racconta la scena del delitto come se fosse una fotografia mentale: i pollici affondano nella gola, la lingua che sporge tra le labbra di Hélène, il panico che lo porta a correre per i corridoi dell’École normale supérieure. Sembra uno che si guarda dall’esterno, con un misto di orrore e meraviglia. Un assassino che ancora si domanda se davvero è stato lui a uccidere. E se l’ha fatto per amore. “Una gran stanchezza ai muscoli degli avambracci: lo so, massaggiare mi fa sempre dolere gli avambracci”, scrive. Nessuna traccia di rabbia. Solo tecnica, un manuale di istruzioni lucido e disumano.

La domanda senza risposta

Ma è una sola la domanda che attraversa tutto il libro, come una scheggia nella carne: perché l’ha uccisa? Non c’è risposta netta, eppure tutto – ogni pagina, ogni ricordo, ogni delirio – è una lunga, ossessiva indagine su quel gesto. Althusser non si assolve. Si osserva. Lo fa con l’intelligenza feroce di chi ha smesso di sperare in una guarigione. Forse Hélène voleva morire, dice. Forse lui ha esaudito quel desiderio. Forse l’ha fatto per salvarla. O per salvarsi. “Un immenso servizio”, scrive con freddezza abissale. Ma è chiaro che quel servizio è anche una condanna. La verità, se esiste, non è in un atto ma in una storia: trent’anni di dipendenza, psicosi, colpa, simbiosi. Una relazione diventata carcere. La follia, scrive, è l’unico modo in cui un uomo come lui poteva ancora essere sincero. Il pensiero, qui, non redime: illumina il buio, ma solo per mostrare quanto è profondo.

Sabotare il proprio pensiero

Il filosofo che ha riscritto Marx e inventato il “materialismo aleatorio” smonta se stesso, parola dopo parola. La madre castrante, l’iniziazione sessuale tardiva, i ricoveri psichiatrici, la gloria accademica, l’adesione al Partito comunista. Althusser si mette a nudo: ogni dettaglio è una traccia psicanalitica, ogni frase è un sintomo. Ma la confessione non è una catarsi. È una condanna. Althusser non cerca di essere capito: cerca un luogo dove il suo pensiero possa ancora avere senso, anche dopo il delitto. L’analisi diventa l’ultima forma di sopravvivenza, un modo per rimanere filosofo anche quando il mondo lo ha archiviato come malato di mente. “Sono in uno stato nel quale, né depresso né ipomaniaco, mi trovo equilibrato come non lo sono stato per molto tempo”, scrive, poco dopo aver rievocato l’omicidio. Una serenità che mette i brividi.

La spettatrice della follia

Hélène, sempre lei. Donna militante, forte. Tragica. L’unico amore, l’unica spettatrice della sua follia. Lui l’ha amata, tradita, usata come madre, sorella, analista. Alla fine, le ha dato la morte come un sinistro regalo. “Un immenso servizio”, scrive. E il lettore, come Carrère davanti Jean-Claude Romand, resta lì a chiedersi dove finisce la patologia e dove inizia la colpa; dove finisce l’uomo e inizia il mostro. In un altro momento confessa: “Quando venne il momento del voto, tutte le mani si alzarono e, con mia vergogna e stupore, io vidi la mia stessa mano che si alzava: lo sapevo da tempo, ero proprio un vile.” Un filo rosso tra l’ideologia e la resa.

Questo libro è un monumento al pensiero che non riesce a salvare. È la dimostrazione che si può essere un genio, un assassino e un uomo – tutto assieme. È un testo che ci interroga, ci destabilizza, ci costringe a guardare in faccia il lato oscuro della ragione. E ci dice, senza alcuna redenzione: l’avvenire dura a lungo. Troppo a lungo.

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