Pagine che si attraversano di corsa, come una stanza in cui è appena successo qualcosa. «A occhi aperti» (Adelphi) è un autoritratto intellettuale in movimento. Saggi, discorsi, appunti, piccole prosette che fanno ciò che Bachmann chiede alla letteratura: guardare lontano, urlare che esistiamo solo quando scriviamo. Nel discorso più noto, che dà il titolo originale al volume, l’autrice rifiuta l’idea di un balsamo linguistico e fa del dolore la condizione della visione: «Noi tutti vogliamo diventare vedenti… in modo molto semplice e giusto diciamo: mi si sono aperti gli occhi»; non perché «abbiamo percepito un oggetto», ma perché «comprendiamo quel che non riusciamo a vedere».
La lingua come destino
Bachmann scrive da un crinale: tra radio e pagina, tra il romanzo che verrà e la lezione che rischia di non arrivare. È una prosa insieme lucida e vulnerabile, che riconosce l’insufficienza della lingua e tuttavia la rilancia. In «Musica e poesia» la tensione è dichiarata, quasi una poetica: «Noi, che trattiamo con la lingua, sappiamo cosa significhino stupore e silenzio – le nostre, per così dire, condizioni più pure!» Lì dove la parola non fa lo show, ma si misura con ciò che eccede il dicibile. Da lettore, ho pensato spesso che l’opera saggistica di Bachmann sia una biografia per vie laterali. Qui la biografia è tutta nella postura. Nelle pagine di «Diario in pubblico» e delle «Lezioni di Francoforte» la scrittrice mette in scena la fatica di trovare la propria lingua dentro la lingua comune: «Una nuova lingua deve avere un modo nuovo di incedere… Non così lo scrittore, lui, lui soltanto, non può adoperarla… dovrà riportarla in vita seguendo un rituale, dovrà darle un ritmo che mai essa trova se non in un’opera d’arte letteraria».
Le parole sono importanti
Se c’è un filo, è un’etica della responsabilità verbale. Bachmann non ama i proclami, preferisce la microfisica dei gesti: un ascolto, un «no» detto al momento giusto, l’attenzione a ciò che la lingua deforma. Da qui il sospetto verso le frasi fatte, la diffidenza per ogni ruolo dell’autore. Nel discorso del 1972 affiora una formula che suona come una condanna e una disciplina: «La lingua è il castigo. E, malgrado ciò, un verso conclusivo: Non una parola, o voi parole». È la frase che resta dopo che sono caduti gli apparati e i discorsi sull’arte. C’è anche un’altra Bachmann, capace di spostare l’asse dalla teoria all’esperienza. Quando racconta la nascita di «Apulia», descrive un istante in treno: il rosso dei papaveri, la sigaretta accesa nel corridoio, e la pagina che si forma come un delta alla foce: «L’acqua con la quale un fiume arriva alla foce non serba memoria delle fonti… delle radici e dei rami che ha trascinato con sé». È un’immagine che vale come estetica del processo: l’opera non rappresenta, precipita. Lettrice vorace, Bachmann visita territori contigui: Böll, Musil, Brecht, Plath. Non fa critica accademica; fa, per così dire, critica d’esperienza. Quando parla della poesia – del suo essere oggi senza funzione e senza pubblico – non cede al lamento. Interroga la necessità: a che scopo i poeti in miseri tempi? La risposta è nella pratica: deporre «formule in una memoria», rinnovare i segni, lasciare una traccia respirata nella lingua di tutti.
Oltre la verità
Il punto è che per Bachmann la verità non è un possesso, è un attraversamento. «Voler creare conforto con le parole non è che un tentativo inadeguato», scrive; ma al tempo stesso chiede alla letteratura di restituire il reale, perfino quando brucia. È lì che la sua prosa – anche quando ragiona di tecnica, di voce, di ritmo – diventa incandescente. Non argomenta sulla verità: esercita l’atto, rischiandolo. C’è una pagina che sembra una lettera, e forse lo è, anche se finge un «tu» universale. «La poesia al lettore» ha la spietatezza delle frasi che si dicono in un rapporto quando si vuole salvare ciò che resta: «Che cosa ci ha allontanati?… Quasi volessi accrescere la tua infelicità e con il mio ingegno esiliarti dal mio regno… Eppure quel che non mi ha mai abbandonato è un amore inestinguibile per te». Qui il «tu» è il lettore, ma anche la lingua stessa, forse il mondo. La letteratura, battuta e battente. Se dovessimo fissare un lascito, sarebbe un paradosso operativo: la lingua punisce, ma è anche l’unico luogo in cui possiamo sperare. Per questo «A occhi aperti» non è un prontuario; è una palestra. Ci allena a distinguere la parola viva dalla parola amministrata, la poesia dall’uso. E ricorda che l’alleanza con la musica non è un abbellimento, ma una necessità del ritmo: il passo dello spirito, direbbe Bachmann, che permette alle arti di riconoscersi. Rileggendo queste pagine si capisce che la vera utopia non è una bandiera, ma un compito: trovare ogni volta la lingua che non esiste ancora. È un compito impossibile, e tuttavia irrinunciabile. Da qui lo stile, che Bachmann definisce come l’istante in cui l’insicurezza della mano è «trascinata dalla sicurezza di ciò che va scritto». È forse la miglior definizione di letteratura che ci sia concessa oggi: non un sapere, ma un andare fino all’estremo senza smettere di guardare. E di ascoltare il silenzio che, testardamente, chiede parole nuove.










