La tragedia del piccolo Elia ricorda alcuni casi analoghi che negli ultimi mesi hanno sconvolto l’opinione pubblica, come quello di Elisa Roveda, la 45enne di Voghera accusata di aver ammazzato il suo bambino di un anno, o quello avvenuto nei giorni scorsi a Muggia, in provincia di Trieste, dove una madre ha ucciso il figlio di nove anni, tentando poi il suicidio.
Casi simili ma diversi, che nascondo spesso un profondo disagio psichico e una grave depressione, i cui segnali potrebbero essere letti e affrontati da esperti del settore, come spiega Alessandra Bramante, psicoterapeuta, criminologa clinica in Neuroscienze. Da 25 anni segue donne in gravidanza e postpartum con problematiche psichiatriche e casi di figlicidio materno.
Cosa scatta nella mente delle donne che uccidono il proprio figlio?
«Alla base c’è spesso il cosiddetto delirio di rovina, un tipo di disturbo psicotico in cui una persona è convinta di essere prossima alla rovina economica o alla distruzione. In questo caso la mamma crede di essere al centro di un mondo cattivo e ha paura di perdere il proprio bambino e preferisce, in preda alla disperazione, porre fine alle loro vite».
Alla base, quindi, c’è un profondo disagio psichico.
«Esatto, ci sono donne che per storia di vita e per patologie, non riescono a vivere il loro bambino come altro da sé. La paura di vedersi togliere il figlio le porta alla disperazione e vivono la sua uccisione come un gesto d’amore estremo. È una dinamica di angoscia depressiva sempre legata al suicidio. C’è anche un problema culturale, spesso si ritiene impossibile che possano far male ai bambini: ma non è così».
Cosa servirebbe per prevenire casi del genere?
«Una maggiore sensibilità per valutare correttamente le situazioni di rischio e maggiori risorse per far sì che certe problematiche vengano trattate con una certa tempistica, senza far dilatare i tempi».
Un’assistenza adeguata può fare la differenza?
«La maternità è cambiata tantissimo e le donne sono estremamente sole. Mi ha sempre sconvolto che in molti casi queste madri, dopo aver commesso l’irreparabile, e trovata la cura giusta, ti dicono che se avessero ricevuto prima quel farmaco non avrebbero commesso quel crimine e il loro figlio sarebbe ancora vivo».










