Allenatore della Nazionale italiana maschile di pallavolo dal 2011 al 2015, con la quale ha vinto un bronzo alle Olimpiadi di Londra nel 2012, nonché due argenti ai campionati europei, Mauro Berruto è ormai (anche) un finissimo narratore, autore di libri e interprete per il teatro, oltre che attivista politico e parlamentare.
Venerdì è stato ospite del «Foggia Festival Sport Story» in un doppio appuntamento, prima in libreria con Dare tutto, chiedere tutto (Mondadori), scritto a quattro mani con mister Antonio Conte, e poi all’auditorium Santa Chiara con il suo spettacolo dal titolo Storie olimpiche: fra pace, guerre e diplomazie – una carrellata di vicende sportive che comincia con Omero e arriva sino ai nostri giorni, toccando i momenti cruciali della storia.
Tra le sue esperienze più forti, di recente, si inserisce quella che ha avuto luogo dal 23 al 28 novembre in Cisgiordania, dove Berruto ha ricoperto il ruolo di Commissario Tecnico della Nazionale Palestinese di pallavolo maschile. Un mandato breve ma altamente simbolico, intrapreso su invito del Comitato Olimpico della Palestina, durante il quale l’allenatore-scrittore ha potuto toccare con mano la drammatica situazione vissuta dai palestinesi, a cominciare dall’accesso alla pratica sportiva. E proprio di questa sua esperienza ha voluto parlare nel corso di questa intervista.
Tanto dal punto di vista umano, quanto da quello sportivo, che situazione c’è in questo momento nei territori palestinesi?
«Ho risposto all’invito del Comitato Olimpico anzitutto per affrontare il tema che riguarda l’accesso alla pratica sportiva per il popolo palestinese: un diritto riconosciuto dai comitati olimpici che dovrebbe portare all’esclusione di quei paesi che lo violano, cosa che non è mai avvenuta per Israele. Nel corso di questa mia breve esperienza ho incontrato tanti allenatori e tante allenatrici, tantissimi atleti che fanno quello che possono, in un clima terribile, ad altissimo rischio: per tanti di loro, infatti, è stato impossibile partecipare al raduno con la Nazionale, a Ramallah. Per alcuni che sono riusciti a partecipare, invece, non è stato possibile rientrare a casa».
Come mai?
«Perché i check-point dell’esercito israeliano si sono moltiplicati, ce ne sono più di mille nella sola Cisgiordania, dove la situazione è fuori controllo. I villaggi vengono letteralmente chiusi con i cancelli, a orari imprecisati, e non permettono più di uscire o di rientrare a casa. Gli atleti che sono riusciti a partecipare agli allenamenti si sono messi in viaggio alle quattro del mattino, malgrado la Cisgiordania sia lunga solo 130 chilometri. È inaccettabile, in violazione a qualunque principio della carta olimpica. Ma non è solo questo: in Cisgiordania è in corso un vero e proprio progetto di pulizia etnica».
Quali le testimonianze più forti?
«Sono tante. Alla fine della giornata di allenamenti, ad esempio, abbiamo incontrato dei giovanissimi calciatori palestinesi che sono stati incarcerati e torturati, abbiamo visto i segni sulla loro pelle: venivano affamati e poi colpiti a bastonate, sui polsi, quando veniva portato loro il cibo. Una squadra di diciassette giocatori che oggi è rimasta in otto, tra calciatori morti e altri ancora in carcere. E poi c’è la storia di Ammar, un tredicenne, grande promessa di boxe tailandese, medaglia di bronzo ai mondiali giovanili in Turchia e fucilato alle spalle, lasciato morire così, nel villaggio di Kafr Malik, senza la possibilità di essere soccorso perché la Mezzaluna Rossa non ha avuto il permesso di entrare. Era solo un bambino, la madre ha appreso della sua morte al telefono, quando finalmente qualcuno ha risposto alle sue chiamate: era un ufficiale dell’esercito israeliano».
Presto si terranno le Olimpiadi invernali, proprio in Italia: cosa si può fare?
«Ci sarà una luce, un faro sullo sport, sarà visibile in tutto il mondo. Quello che chiedo, agli atleti, a tutti, è di manifestare, di schierarsi, di prendere una posizione di fronte a quello che non esito a definire un manuale di apartheid».









