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Tozzi: «Questo tour? Un addio, ho altri progetti. Non ho speranze per la musica che verrà» – L’INTERVISTA

Cinquant’anni di carriera, ottanta milioni di dischi venduti, successi che hanno attraversato decenni e continenti: Umberto Tozzi si sta congedando dal suo pubblico con “L’ultima notte rosa – The Final Tour”, un lungo addio che ha già toccato teatri e palasport italiani, per poi estendersi in quattro continenti. In attesa della grande festa conclusiva all’Arena di Verona il 5 ottobre, l’artista torinese si prepara a quattro tappe meridionali: venerdì 26 luglio sarà al Foro Boario di Ostuni (Brindisi), domenica 28 all’Arenile del Porto di Peschici (Foggia), lunedì 29 al Porto Turistico di Pescara, e mercoledì 31 luglio all’Arena Musa di Benevento. «Ogni concerto è un saluto, ma anche un ringraziamento», racconta Tozzi in questa intervista, tra malinconia e gratitudine, mentre intorno a lui si chiude uno dei percorsi più fortunati della musica italiana.

Il tour sta registrando numeri importanti, con molti sold out e diverse date anche all’estero. Si aspettava un’accoglienza così calorosa, sia dal pubblico italiano che da quello internazionale?

«Guardi, ogni tour è una sorpresa. Non si può mai sapere come andrà. Ma stavolta sto raccogliendo una connessione col pubblico davvero profonda, che mi tocca e mi riempie di gioia. Siamo molto felici. Facciamo del nostro meglio per proporre una musica forte, un repertorio energico. Sul palco ci divertiamo tanto e credo che questo riesca a coinvolgere anche chi viene ad ascoltarci».

Dal punto di vista del suono, ha deciso di accompagnarsi con un’orchestra ampia. Come è nata questa scelta?

«È stata una volontà precisa. In ogni tour ho cercato di aumentare le sezioni: oggi abbiamo archi, fiati – che prima c’erano ma non in questa forma – e due coristi in più. La mia musica è pop, rock, ma ha anche una componente sinfonica importante. L’aggiunta di questi elementi rende il suono del live più forte, più energico. E ci diverte moltissimo».

Ha chiamato questo tour “L’ultima notte rosa”. Sarà davvero l’ultimo? Vasco, 15 anni fa, annunciò il ritiro e oggi è ancora negli stadi…

«Non so cosa riservi la vita, ma ti rispondo di sì. Ogni volta che salgo sul palco per l’ultima data in una città mi viene un po’ di malinconia, ma è anche un grande piacere salutare così il pubblico, ringraziarlo per l’affetto. Ho dei progetti futuri che non posso ancora rivelare, sono superstizioso».
Intanto, continua a riscuotere grande successo, anche in un panorama musicale che è molto cambiato.

Come si colloca nella scena moderna?

«Non mi colloco. Non l’ho mai fatto. Mi sento un musicista fortunato, privilegiato per quello che ho vissuto. Non mi sarei mai aspettato di vedere più generazioni ai miei concerti, invece accade, e questo è bellissimo. Ma la musica di oggi è completamente diversa. Noi avevamo una cultura musicale diversa. È giusto che i ragazzi facciano qualcosa di nuovo, diverso da quello che abbiamo fatto noi. Quello l’abbiamo già fatto, anche bene».

Vede in giro qualche voce nuova in grado di raccogliere l’eredità dei grandi cantautori degli anni Settanta e Ottanta?

«Non seguo la musica di oggi. Non mi emoziona. Darei giudizi sbagliati, e non me lo permetto. So solo che negli anni Sessanta, Settanta, fino ai Novanta, sono state scritte cose uniche. Non so se oggi si possa replicare quella creatività».

È anche una questione di percorso? La vostra generazione ha fatto lunghe gavette, oggi invece spesso si debutta su grandi palchi partendo da zero.

«Sì, è vero. Io ho cominciato facendo il musicista, suonavo la chitarra con tanti gruppi. Oggi i ragazzi lavorano con un computer. È un altro mondo, con una cultura diversa. Io non lo conosco e neanche mi interessa».

Tornando ai suoi inizi: c’è stato un artista, o una canzone, che le ha fatto capire che quella era la sua strada?

«Ho cominciato a seguire i Beatles nel 1962, avevo dieci anni. Per me loro erano e sono rimasti un riferimento assoluto. Poi sono arrivati tanti altri gruppi, gente che ha scritto repertori ineguagliabili. La mia cultura musicale nasce lì».

Ha mai avuto rimpianti nel corso della sua lunga carriera? Qualcosa che avrebbe fatto diversamente?

«Nessun rimpianto. Gli errori sono necessari, servono a imparare. Non ho mai calcolato le cose che ho fatto. È andata com’è andata, non saprei cosa cambiare».

In un’intervista ha detto che per arrivare dove è arrivato è servito “tanto culo”.

«E lo confermo. Il talento non basta».

C’è un episodio che rappresenta questo colpo di fortuna?

«L’incontro con Greg Mathieson, un grandissimo pianista e arrangiatore. Con lui abbiamo poi prodotto tanti album. Ma il vero colpo di fortuna è stato che parlò di me in America alla produzione di Laura Branigan. Da lì nacque la cover di “Gloria”, che diventò un successo mondiale. Ci sono incontri che determinano tutto».

Ha dichiarato che non farebbe mai il direttore artistico di Sanremo. Ha cambiato idea?

«No, non credo di esserne capace. Prenderei solo artisti che cantano senza autotune, con una vocalità particolare… tutte cose che oggi non si cercano più. Sbaglierei tutto, sarebbe un fallimento».

Perché, secondo lei, oggi non sono più la voce e la canzone al centro dell’attenzione?

«Perché i tempi sono cambiati. E va bene così. Le nuove generazioni devono fare qualcosa di diverso, e lo stanno facendo».

C’è una speranza che nutre per la musica che verrà?

«Le dirò di no. Non ho nessuna speranza. Non vedo cosa possa arrivare di veramente nuovo. Ho una certa età, una certa esperienza, e ho vissuto artisti che per me sono irripetibili. Non credo che nasceranno altri Michael Jackson o altri Pink Floyd».

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