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Serena Dandini al Salento Book Festival: «Molti dei miei libri sono nati in Puglia» – L’INTERVISTA

C’è un momento della vita, a metà tra il disincanto e la scoperta, che somiglia a un bosco fitto: ci si addentra senza sapere se se ne uscirà uguali. È lì che Serena Dandini ha scelto di ambientare il suo ultimo romanzo, C’era la luna (Einaudi), raccontando l’adolescenza femminile a fine anni Sessanta, tra ribellione,…
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C’è un momento della vita, a metà tra il disincanto e la scoperta, che somiglia a un bosco fitto: ci si addentra senza sapere se se ne uscirà uguali. È lì che Serena Dandini ha scelto di ambientare il suo ultimo romanzo, C’era la luna (Einaudi), raccontando l’adolescenza femminile a fine anni Sessanta, tra ribellione, amicizia e desiderio di libertà. Scrivere per lei significa ritornare a quel passaggio e dar voce a una generazione che per la prima volta ha detto “noi”, scoprendo insieme il peso e la forza leggera della giovinezza.

Ieri sera la scrittrice è stata ospite al Salento Book Festival, a Neviano, dove in Piazza Concordia ha presentato il suo libro dialogando con Andrea Zalone.

Dandini, lei è un habitué in Puglia. Che rapporto ha con questa terra?

«In realtà non è nemmeno un “tornare”. Da vent’anni passo qui molto tempo: non ci sto stabilmente perché abito a Roma, ma è come se avessi due case. La Puglia è diventata parte della mia vita, ho amici cari e un legame profondo con il territorio».

Come è nato questo legame?

«All’inizio per curiosità, grazie ad amici che frequentavano questi luoghi quando ancora non erano così conosciuti. Mi sono innamorata non solo della bellezza dei paesaggi, ma anche delle persone. Ci sono tanti posti belli al mondo, ma quando unisci luoghi straordinari a persone straordinarie, l’attrazione diventa irresistibile».

Parliamo di “C’era la luna”. Si ricorda il momento in cui ha iniziato a scriverlo?

«Ero proprio qui, scrivo spesso in Puglia, dove trovo libertà, silenzio e concentrazione. Questo libro lo portavo dentro da tempo ma non avevo mai avuto il coraggio di affrontarlo. La protagonista è una ragazzina di quattordici anni alla fine degli anni Sessanta: un registro narrativo nuovo per me. Evidentemente era arrivato il momento giusto per far emergere questa storia, che racconta la crescita e il passaggio delicato dell’adolescenza. Un’esperienza universale, ma che in quegli anni, per le ragazze, significava soprattutto cercare libertà in un mondo che ancora non la concedeva».

C’è qualcosa di autobiografico nella protagonista?

«In ogni libro resta sempre qualcosa dell’autore. Non è la mia storia, ma inevitabilmente ci sono frammenti di me, delle persone che amo, delle mie amiche. È anche un romanzo sulla sorellanza, e questo riflette molto la mia esperienza».

Che ruolo ha avuto la sorellanza nella sua vita?

«Fondamentale. Nel libro scrivo che l’amicizia può essere persino più importante dell’amore. Con tutto il rispetto per l’innamoramento e per la vita di coppia, credo che nei momenti più difficili l’amicizia sappia fare davvero la differenza. È un legame che salva la vita».

Una convinzione che aveva anche da adolescente?

«Da ragazza ero, come tutti, affascinata dall’amore. Ma mi interessava raccontare una generazione che ha scoperto il “noi”: prima quasi non esisteva la giovinezza come categoria autonoma, si passava dall’infanzia all’età adulta. Quella generazione, invece, ha scoperto la possibilità di contare, di distinguersi dai genitori, di costruire un’esperienza collettiva. Non a caso, il titolo provvisorio del libro era proprio “Noi”».

Oggi invece, il tempo della giovinezza sembra dilatato.

«È vero, esistono gli eterni adolescenti. Credo dipenda dal narcisismo della nostra epoca, dal bisogno di visibilità e riconoscimento che ci porta a specchiarci continuamente. È come se quella fase della vita, in cui si cerca di capire chi si è, si fosse allungata all’infinito. Abbiamo perso il senso della comunità e siamo tornati a un individualismo infantile».

Pensa che questo faccia parte di una fase ciclica, destinata a cambiare con le nuove generazioni?

«Forse. Nonostante tutto, credo che i giovani siano migliori di come vengono raccontati: gli articoli di cronaca puntano sugli estremi, ma la maggioranza è più seria e interessante. Occorre andare oltre l’immagine superficiale che ci arriva dai social».

E lei, come vive i social?

«Con pigrizia. Li considero utili, ma continuo ad amare la ricerca fisica delle cose: i libri, i concerti, i film. L’immersione nella realtà resta indispensabile, altrimenti si perde il senso della vita e degli altri».

Torniamo al libro, un altro tema centrale è la liberazione sessuale.

«Era un’epoca in cui non esistevano diritti: niente divorzio, nessuna legge sull’interruzione di gravidanza, la pillola anticoncezionale persino proibita. Un vero deserto. Quelle ragazze non potevano che ribellarsi. Hanno messo le basi per le conquiste degli anni Settanta, e mi piaceva ricordarlo: a loro dobbiamo molto».

Ci sono conquiste femminili che oggi considera ancora fragili?

«Ogni diritto può essere rimesso in discussione da un giorno all’altro, soprattutto quelli legati all’emancipazione femminile. È uno dei motivi per cui ho scritto questo libro: ricordare com’eravamo serve a non fare passi indietro».

Lei racconta storie da sempre. Crede che la narrazione abbia ancora un impatto sulle coscienze?

«Non è qualcosa che cambia il mondo, ma è una tessera importante del mosaico. La lettura è un dialogo intimo e segreto tra autore e lettore, ed è preziosa. Non si fanno più rivoluzioni con i libri, ma possono offrire sponde fondamentali».

Negli ultimi giorni a Bari ha fatto discutere l’esclusione di Israele dalla Fiera del Levante. Che ne pensa?

«Non voglio entrare nelle polemiche, anche perché non conosco bene i fatti. L’unica cosa certa è che a Gaza si sta consumando una catastrofe umanitaria. Non possiamo chiudere gli occhi. Tutto ciò che serve a risvegliare le coscienze è utile».

Quali autori la accompagnano oggi?

«Variano con le stagioni. In estate amo leggere e rileggere i romanzi, anche i classici. In questo periodo sto recuperando autrici italiane dimenticate o sottovalutate, come Alba de Céspedes, la cui opera è stata a lungo liquidata come narrativa “rosa”. Credo invece che meriti una nuova attenzione».

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