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Sadici, un po’ disperati, terribilmente umani. “Squid Game” ci mette davanti allo specchio

“Squid Game”, la serie dei record targata Netflix, è giunta al termine. La storia dell’eroico Gi-hun arriva alla sua conclusione dopo tre stagioni di grande successo, capaci di appassionare il pubblico di tutto il mondo. Con 22 episodi all’attivo, “Squid Game” non ha soltanto vinto innumerevoli premi prestigiosi (Critics’ Choice Awards, Emmy e persino un Golden Globe), ma si classifica anche come il prodotto più visualizzato di sempre sulla piattaforma di streaming con oltre un miliardo e 600 mila ore di riproduzione. La terza e ultima stagione ha raggiunto la prima posizione in tutti i 93 Paesi in cui è stata distribuita e si mantiene ancora ben salda nella top ten italiana, nonostante siano trascorsi diversi giorni dall’esordio. Le ragioni del successo? Scopriamole insieme.

La trama

Travolto dai debiti, Seong Gi-hun (Lee Jung-jae) viene reclutato per partecipare a un misterioso gioco che promette di risanare la sua situazione finanziaria. Tutto ciò che deve fare è collaborare o sfidare gli altri giocatori per superare le prove proposte, ovvero tipici giochi sudcoreani per bambini. Chi vince eredita una spropositata somma in denaro. C’è solo un problema: chi perde, muore. Gi-hun sopravvivrà a questa edizione del gioco mortale e giurerà di distruggerlo una volta per tutte, trascinando nel baratro anche i suoi sadici ideatori.

Il gioco della vita

Alleanze, tradimenti, colpi bassi. Nel “gioco del calamaro” vale tutto pur di salvare la pelle. L’onestà e la lealtà sono merce rara, mentre la fiducia è pericolosa. Canaglie di ogni genere rimpinguano le frange dei giocatori. Ci sono criminali, ludopatici, investitori sfortunati e anche tanta brava gente caduta in disgrazia. Il denaro fa gola, e il sistema si serve della disperazione dei partecipanti per aizzarli gli uni contro gli altri, senza pietà, trasformando il dolore in spettacolo. Il sangue scorre a fiumi, insozzando gli ambienti dalle tinte pastello e schizzando sulle pareti decorate, macchiando la coscienza di chi resta. Non ci sono cali di tensione: la narrazione è guidata dalla furia cieca della sopravvivenza. Eppure, nella brutalità, il regista Hwang Dong-hyuk ci regala attimi di tenera umanità, segnali forti che accendono la speranza: non tutto è inferno, forse qualcosa si è salvato. I giochi di questa spettacolare serie sudcoreana non sono altro che metafore delle dinamiche sociali e specchio di un mondo dominato da falsi dei. Per questo “Squid Game” inquieta e affascina. Il gioco della vita -il più crudele- si consuma ogni giorno davanti ai nostri occhi: se vincere è impossibile, resistere è un dovere morale.

di Myriam Saputo

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