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Motivazione lavorativa, l’Italia è il Paese del deserto: solo il 6% si sente pienamente coinvolto

In Italia, il mondo del lavoro presenta un paradosso stridente: sebbene la maggior parte delle persone si dichiari genericamente soddisfatta della propria occupazione, quando si analizza il livello di coinvolgimento attivo (engagement), i numeri crollano drasticamente. L’Italia, infatti, si posiziona costantemente all’ultimo posto in Europa, con solo il 6 per cento dei lavoratori che si sente pienamente motivato, coinvolto e a proprio agio nella vita aziendale. Questo dato, che emerge da rapporti internazionali come lo «State of the Global Workplace» di Gallup, è un campanello d’allarme significativo per il sistema produttivo italiano.

La distinzione tra «motivazione» e «coinvolgimento attivo» è cruciale distinguere tra la soddisfazione lavorativa generica e l’engagement.

  • Soddisfazione: Molti italiani (secondo l’Istat, oltre la metà si dichiara soddisfatta) apprezzano la sicurezza del posto, la relazione con i colleghi o la vicinanza a casa.
  • Engagement: Il coinvolgimento attivo misura l’impegno emotivo e intellettuale del dipendente verso gli obiettivi dell’azienda. Un lavoratore “engaged” è proattivo, entusiasta, spende energie extra e si sente valorizzato.

Il 6 per cento rappresenta la quota di lavoratori che incarnano questo profilo ideale. La restante parte si divide tra:

  • Non-engaged (la maggioranza): Lavoratori che svolgono il minimo indispensabile, senza entusiasmo né iniziativa.
  • Attivamente disengaged: Dipendenti apertamente demotivati, che possono persino ostacolare i colleghi e l’azienda.

Le conseguenze di un basso engagement

Un livello di coinvolgimento esiguo ha ripercussioni dirette sulla produttività, l’innovazione e la competitività del Paese. La scarsa motivazione diffusa è spesso legata alla carenza di leadership, cioè a manager impreparati nella gestione delle risorse umane.

Ma anche a poche opportunità di crescita, cioè a percorsi di carriera poco chiari o inesistenti. O allo scarso riconoscimento con retribuzioni non all’altezza delle aspettative o del merito. Infine un ruolo lo gioca anche la cultura aziendale rigida con poca autonomia decisionale e scarsa attenzione al benessere dei dipendenti.

Mentre la media europea si attesta intorno al 13 per cento di lavoratori coinvolti e la media globale al 21 per cento, il dato italiano del 6 per cento evidenzia un profondo divario culturale e organizzativo che le imprese sono chiamate a colmare per sostenere la crescita economica a lungo termine. Il costo della demotivazione è molto elevato: 8,9 trilioni di dollari a livello globale, tra cali di produttività e assenteismo.

A pesare non è solo la fatica fisica, ma lo stress: l’Organizzazione mondiale della sanità stima in 12 miliardi le giornate di lavoro perse ogni anno per ansia e depressione, con un costo di un trilione di dollari. E l’Italia è appunto fanalino di coda, mentre va decisamente meglio il Nord Europa. Nei Paesi nordici fiducia, infatti, autonomia e welfare assicurano elevata qualità del lavoro, quando l’Italia resta ferma a un modello rigido, ufficio ed orario centrico.

Le imprese più innovative iniziano a sperimentare nuove formule: smart working regolato, diritto alla disconnessione, programmi di salute mentale e, in alcuni rari casi, anche la settimana lavorativa corta. I risultati all’estero sono incoraggianti: nel Regno Unito, dopo sei mesi di test in 61 aziende, il burnout (stress lavorativo cronico) è crollato del 71 per cento, mentre la produttività è rimasta invariata o in aumento; in Spagna, invece, aver ridotto l’orario a 37,5 ore settimanali ha migliorato benessere e soddisfazione.

Da qualche tempo, spiega Kevin Giorgis, presidente di «Efi Ecosistema Formazione Italia», associazione non profit che abilita una rete tra responsabili delle risorse umane, della formazione aziendale, enti formativi, università, «i lavoratori non sono più disposti a sacrificare il proprio benessere per le opportunità di carriera o di guadagno».

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