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La notte in cui Bob Dylan sconvolse Newport. Dal folk al rock, il report di un tradimento

Il 25 luglio 1965, Bob Dylan salì sul palco del Newport Folk Festival e fece la cosa più rock’n’roll che si possa immaginare: si fece odiare per la sua sincerità. Davanti a migliaia di fedeli del folk, imbracciò una Fender Stratocaster e dichiarò guerra alla sua stessa leggenda. Non fu solo un cambio di suono:…
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Il 25 luglio 1965, Bob Dylan salì sul palco del Newport Folk Festival e fece la cosa più rock’n’roll che si possa immaginare: si fece odiare per la sua sincerità. Davanti a migliaia di fedeli del folk, imbracciò una Fender Stratocaster e dichiarò guerra alla sua stessa leggenda. Non fu solo un cambio di suono: fu un’esplosione culturale, una scossa tellurica che spaccò in due una generazione.

Il tradimento perfetto

Fino a quel momento, Dylan era il profeta con la chitarra acustica, il ragazzo di Duluth che dava voce ai diseredati. Magrolino, scavato dagli eccessi e dalle 200 sigarette al giorno, indossava sempre la stessa giacca logora di pelle marrone scamosciata e un berretto da ferroviere, in omaggio al suo maestro Woody Guthrie. Ma stava già scappando da quell’immagine, con l’aria di chi sta per salire su un treno che nessun altro ha ancora visto passare. Nel marzo ’65 aveva pubblicato Bringing It All Back Home: metà acustico, metà elettrico. Pochi giorni prima di Newport uscì Like a Rolling Stone, un pezzo da sei minuti e mezzo che sputava in faccia alle regole della radio. Il folk revival, con i suoi canti da falò e la purezza mitologica, gli stava stretto. Dylan voleva distorsione, velocità, caos. Voleva suonare come Chuck Berry con i testi di Rimbaud. E gliene fregava zero se qualcuno non era pronto.

20 minuti di caos

Quella sera di sessant’anni fa, Bobby salì sul palco vestito di nero, giubbotto di pelle e sguardo da chi sa cosa sta per fare. Con lui, mezza Paul Butterfield Blues Band e il pianista Barry Goldberg. Niente introduzioni. Attaccò Maggie’s Farm ed esplose l’inferno. Il pubblico impietrito. Alcuni urlavano, altri fischiavano. Nessuno sapeva se stava assistendo a un tradimento o a una rinascita. Like a Rolling Stone seguì senza pietà. Poi Phantom Engineer, ancora inedita. Dopo venti minuti Dylan lasciò il palco tra grida, insulti e oggetti volanti. Era una bomba generazionale appena esplosa sotto le tende di Newport.
L’addio in due canzoni
A calmare gli animi ci provarono Pete Seeger e Peter Yarrow. Convinto dagli amici, Dylan tornò da solo, armato di chitarra acustica. Cantò Mr. Tambourine Man e It’s All Over Now, Baby Blue. L’ultima frase, «It’s all over now», fu come chiudere la porta dietro di sé. L’applauso fu lungo, ma quella era la fine di qualcosa. Dylan non tornò più a Newport per 37 anni. Quando lo fece, nel 2002, si presentò con parrucca e barba finta. Una burla, un esorcismo, un promemoria: non prendetemi mai troppo sul serio.

Fischi, asce e leggende

La leggenda vuole che Pete Seeger, imbufalito, volesse fermare l’esibizione di Dylan tagliando i cavi elettrici con un’ascia. Altri dicono fosse solo arrabbiato perché non si capivano le parole. I fischi? Forse non erano contro l’elettrico, ma contro il set troppo corto. «Volevano solo più musica», dirà poi Al Kooper, organista di quella sera. Ma la mitologia ha scelto un’altra strada: Dylan che tradisce il folk e lo manda a morire nel frastuono del rock. La stampa alimentò il fuoco. E per mesi non si parlò d’altro.

La miccia che accese tutto

Da quel momento, nulla fu più lo stesso. Dylan aprì la strada al folk rock, ispirò i Beatles a sperimentare, portò la poesia nell’amplificatore. I dischi che seguirono – Highway 61 Revisited, Blonde on Blonde – cambiarono il panorama musicale. I film l’hanno raccontato da ogni angolazione: Festival di Lerner, No Direction Home di Scorsese, I’m Not There con Cate Blanchett, fino al recente A Complete Unknown con Timothée Chalamet. Ognuno ha cercato di decifrare cosa accadde davvero quella notte. Risultato? Una grande nuvola di fumo.

E quando pochi mesi dopo quella notte spartiacque, durante un tour inglese, un fan gli urlò «Judas!», lui non fece una piega. Si girò verso la band e disse: «Play it fucking loud». Il resto è storia, ma Dylan era già oltre.

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