Nella luce obliqua di un pomeriggio estivo, Katia Ricciarelli parla di “Rigoletto” come si parla di un vecchio amico: con affetto, con rispetto e con la franchezza di chi non teme di dire che certi allestimenti moderni le lasciano un sapore amaro. Stasera, all’Arena del Castello di Mola di Bari, chiuderà l’AgimusFestival con una messinscena nel segno della tradizione: scene di Damiano Pastoressa, costumi della Sartoria Shangrillà, un cast internazionale e l’Orchestra Sinfonica 131 della Basilicata diretta da Francesco Zingariello.
Per Ricciarelli, “Rigoletto” non è soltanto un’opera perfetta, con il suo equilibrio di lirismo e dramma, ma un terreno in cui riaffermare l’idea che l’opera lirica debba rimanere fedele a se stessa, parlare la lingua per cui è nata. «Il pubblico vuole sognare», dice. E in quell’idea di sogno, non come fuga ma come spazio di bellezza necessaria, c’è la chiave di tutta la sua carriera e, forse, della sua stessa idea di esistenza.
Il suo è un “Rigoletto” nel segno della tradizione. Perché ha scelto un’impostazione classica in un’epoca in cui molti registi scelgono riletture radicali?
«Perché la penso così: l’opera non può essere sconvolta. Un po’ di libertà, va bene, ma certe cose sono davvero inaccettabili, anche perché i testi sono figli della loro epoca. Nel caso di “Rigoletto”, non parliamo certo di uno scrittore contemporaneo, il linguaggio è totalmente diverso e sarebbe ridicolo adattarlo a un registro moderno. Vale lo stesso per Shakespeare e altri autori. Il pubblico va a teatro per sognare, per dare spazio al canto e alla musica: non deve essere distratto da invenzioni insolite e spesso inaccettabili. Così si distoglie l’attenzione da ciò che conta davvero: la musica».
Vede una forma di protagonismo, nel voler per forza lasciare la propria impronta su opere già così definite?
«Sì. C’è chi è convinto che sia necessario stravolgere perché “siamo in un’epoca nuova”. Ma prima di tutto facciamo andare i giovani a teatro, facciamo conoscere loro l’opera. Non dico di restare ancorati al passato, ma nemmeno di calpestarlo. Non si può restituire, ad esempio, Gilda come una prostituta vestita in un certo modo, quando non lo è: ho visto allestimenti in cui cantava vestita da squillo. Oppure un “Rigoletto” anziano, sempre con una bottiglia di alcol in mano, circondato da contrabbandieri in Colombia. Sono cose che non hanno senso».
Insomma, chiede più rispetto per la storia dell’opera?
«Esatto, è questione di rispetto verso l’opera e chi l’ha scritta. Otello per esempio è nero, mentre tante volte lo vedo rappresentato come bianco. Non capisco queste scelte. Bisogna sognare, vedere belle cose, belle scene, con passione. E se non ci sono scenografie grandiose, va bene lo stesso: conta l’anima».
Per molti “Rigoletto” è quasi un thriller in musica. Lei come descriverebbe la tensione che attraversa l’opera?
«È così, certamente. Forse allora erano persino più crudeli di noi. Oggi, però, stiamo andando sempre peggio: serve tornare alla poesia, a cose belle da vedere. Le brutte cose le conosciamo già».
Crede che la musica e l’arte possano avere ancora un lascito per le coscienze?
«Sì. Chi ama la musica e l’arte certe cose non le tollera. Per questo bisogna insegnare ai figli ad ascoltare. La musica ti accompagna nel cuore, nella passione, in tutto. Perché soffocarla con immagini crudeli?».
Oggi però i giovani vivono davanti al telefono e sembrano meno interessati alla musica classica. Come avvicinarli senza retorica?
«Bisogna partire dai genitori. Portare i figli a teatro fin da piccoli, spiegare la bellezza della musica, tutta, non solo la lirica. Serve anche il supporto della scuola: già dai sette anni si può dire “ti porto a vedere Cenerentola”. Ma se poi il bambino torna a casa e sente dire “l’opera è noiosa”, è finita. Mi è capitato con un bimbo di otto anni che mi ha chiesto: “Ma è vero che il melodramma è una malattia incurabile?”. L’aveva sentito da un insegnante, ma a casa non c’era stato un seguito. La colpa, in fondo, è sempre dei grandi».
Dopo una carriera immensa come soprano, oggi si dedica soprattutto alla regia e all’insegnamento. Cosa le restituisce stare dall’altra parte del palcoscenico?
«Cerco di insegnare ciò che ho vissuto e imparato, trasmettere le cose belle e dire cosa evitare. Continuo a fare le mie serate, ma mi dedico molto ai ragazzi per far capire loro quanto la musica sia importante. È stata fondamentale in passato e non dobbiamo dimenticare che la musica lirica l’abbiamo inventata noi, nel Seicento. Ci appartiene geneticamente».
Se potesse rivivere un solo ruolo per una sera, quale sceglierebbe?
«Ne ho interpretati tanti, ciascuno legato a un momento importante della mia vita. All’inizio pensavo solo alla tecnica vocale, a essere brava, precisa. Poi, col tempo, ho scoperto la bellezza della recitazione e sono arrivata al verismo: Puccini, Leoncavallo, opere più sanguigne rispetto a Rossini, Bellini, Donizetti e Verdi».
Guardando indietro, ha qualche rimpianto?
«Solo due titoli che avrei voluto cantare e non ho potuto: “La forza del destino” e la “Manon Lescaut” di Puccini. Forse è nella natura umana voler fare sempre ciò che non si è fatto».
Dopo tanti anni di palcoscenico, cos’è per lei il successo?
«È la soddisfazione di entrare nella casa e nel cuore di una persona, piacere al pubblico. Senza il pubblico non valiamo nulla: è come cantare in mezzo a un campo. Amo interagire con la platea. Per il pubblico ho sacrificato molto, anche la possibilità di avere figli al momento giusto. È andata com’è andata: ho fatto dei sacrifici, ma ho ricevuto tantissimo».
Il successo l’ha portata anche una certa vulnerabilità?
«No. Da giovane vivevo in una situazione familiare difficile. Il successo mi ha dato cose che prima non potevo permettermi, ma col tempo ho capito che le soddisfazioni materiali non contano nulla. Sto meglio con il pubblico e con le persone che mi vogliono bene».
Cosa intende per “soddisfazioni materiali”?
«Oggetti, beni, lusso. Li ho avuti, ma non portano niente. Quello che conta è la famiglia: sembra una frase fatta, ma è così. Non voglio più nulla oggi, il passato è andato e saranno gli altri a parlarne, se ne varrà la pena. Il presente e la mia serenità sono tutto ciò che mi interessa».