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I lavoratori autonomi nella morsa della povertà: Puglia quarta in Italia

Tra i nuclei con a capofamiglia un lavoratore autonomo, il rischio povertà o esclusione sociale è al 22,7%, mentre la quota riferita alle famiglie con alla guida un lavoratore dipendente è inferiore e pari al 14,8%. A rilevarlo l’ultimo studio diffuso dalla Cgia di Mestre. I dati regionali In termini assoluti la popolazione a rischio…

Tra i nuclei con a capofamiglia un lavoratore autonomo, il rischio povertà o esclusione sociale è al 22,7%, mentre la quota riferita alle famiglie con alla guida un lavoratore dipendente è inferiore e pari al 14,8%. A rilevarlo l’ultimo studio diffuso dalla Cgia di Mestre.

I dati regionali

In termini assoluti la popolazione a rischio povertà o esclusione sociale in Italia è a pari a 13,5 milioni di persone (23,1% del totale abitanti). Di questi, 7,7 milioni (57% del totale) sono al Sud: prima la Campania (2,4 milioni), poi Sicilia (1,9), il Lazio (1,5) e la Puglia (1,46). Se si prende come riferimento la percentuale a rischio povertà sul totale abitanti, prima è la Calabria (48,8%) la Campania (43,5), la Sicilia (40,9) e la Puglia al quarto posto (37,7). Più nello specifico si parla di oltre 5 milioni di persone, spesso giovani, donne e over 50, soprattutto nel Mezzogiorno, che vivono con piccoli lavori e senza alcuna tutela da parte dello Stato o dei Comuni nei quali vivono.

Il fenomeno

Se negli ultimi decenni c’è stato un progressivo calo del potere d’acquisto dei salari che ha spinto verso l’area dell’indigenza molti operai e impiegati con bassi livelli di inquadramento contrattuale, agli autonomi è andata peggio. Per la Cgia il rischio povertà o esclusione sociale è un indicatore complesso dato dalla somma delle persone che si trovano in almeno una di queste condizioni: vivono in famiglie a rischio povertà o in condizioni di grave deprivazione materiale e sociale o a bassa intensità di lavoro. Tra le categorie monitorate dall’Istat la più disagiata è quella dei pensionati, dove il rischio povertà è al 33,1%. In Italia gli autonomi sono 5 milioni e 170mila. Di questi, poco meno della metà opera in regime dei minimi, senza dipendenti e senza alcuna organizzazione d’impresa con un fatturato annuo sotto gli 85 mila euro. È il caso di tanti giovani, donne e persone in età avanzata specie del Sud che vivono con piccoli lavori o consulenze senza alcun ammortizzatore sociale o sostegno pubblico. Negli ultimi 20 anni il reddito degli autonomi è sceso del 30%, dell’8% quello dei lavoratori dipendenti. Per i pensionati il dato è rimasto pressoché stabile. La debolezza economica di molte partite Iva dunque, il crollo dei consumi interni (causato dalle crisi economiche che si sono succedute in questi due decenni) e la concorrenza praticata dapprima dalla grande distribuzione e negli ultimi anni dal commercio elettronico, hanno fiaccato la tenuta reddituale di tantissime micro attività.

L’impatto dei dazi

Dal momento che non lavorano direttamente con i mercati stranieri e che sono pochi coloro che operano nelle filiere produttive coinvolte nell’export, gli autonomi non dovrebbero subire effetti negativi dall’introduzione dei dazi. Le cose potrebbero cambiare se i dazi dovessero provocare un calo della crescita economica e un incremento dell’inflazione, i più danneggiati sarebbero gli autonomi più fragili. Per cui, spiegano dalla Cgia, «è necessario, dove possibile, diversificare i mercati di vendita all’estero dei nostri prodotti e rilanciare la domanda interna, attraverso la messa a terra del Pnrr e una ripresa dei consumi che potrebbe essere agevolata con il calo delle imposte a famiglie e imprese».

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