Il mandolino come passaporto, non solo per attraversare i generi ma per entrare nella storia stessa della musica. Chris Thile lo imbraccia e lo piega a Bach, riportandolo all’origine italiana di quell’immaginazione barocca che ha fatto scuola in Europa. Tra il ricordo di un live a Salerno e i vini di Barolo, tra Nickel Creek e Punch Brothers, l’americano più curioso del nostro tempo racconta perché la tradizione, prima di essere conservazione, è sempre stata innovazione che resiste.
Prima della video call, l’ufficio stampa avverte: non più di quindici minuti, Chris arriva da un lungo volo, è stanco. Un po’ ci rimango male, penso a risposte frettolose, a un dialogo contratto. Ma la delusione svanisce appena si accende lo schermo: eccolo nel salotto di casa sua, i capelli leggermente arruffati, un sorriso largo e la voglia evidente di condividere, senza risparmiarsi, il suo mondo e la sua musica. La chiacchierata finisce per durare quasi un’ora. Thile sarà in autunno in Italia: l’8 novembre alla Casa del Jazz di Roma, il 9 alla Triennale Milano Teatro.
È la sua prima tournée solistica in Italia?
«Non proprio. Ho già avuto qualche esperienza qui, anche se sporadica: una volta da solo a Salerno, un’altra sempre lì insieme a Brad Mehldau. A Milano ho suonato con Brad e, molti anni fa, con i Nickel Creek. Avevo appena diciannove o vent’anni. Roma, invece, sarà una prima volta assoluta.
Che cosa si aspetta da questi concerti?
«A Salerno ricordo un calore senza precedenti: il corrispettivo musicale di un abbraccio collettivo. L’ho sentito anche con Brad, a Milano e a Bari. È un’accoglienza rara. E poi l’Italia per me è casa per altri motivi: suono uno strumento di origine italiana e, in questo tour, eseguirò molto Bach. È un compositore ossessionato dalla cultura italiana: basta scorrere i titoli delle danze, ciaccona, giga, allemanda, e in quella Sonata in sol minore c’è persino una Siciliana. Suonarla sul mandolino significa continuare una conversazione con l’Italia nella musica, come nel cibo e nel vino».
Che vini le piacciono?
«Soprattutto quelli piemontesi, Barolo e Barbaresco. La prima vacanza con mia moglie è stata lì, tra le colline del Piemonte, poi in Lombardia. Sono un grande appassionato, e in Italia il vino è un altro modo di parlare di identità. Ricordo una degustazione a Lessona: il produttore ci disse che tradizione significa innovazione talmente buona da vincere il tempo. È la stessa cosa con la musica».
Perché affronta Bach con un mandolino “F-style” moderno, e non con uno strumento d’epoca?
«La prima incisione delle Sonate e Partite, circa dodici anni fa, la vissi come un Everest: ero deferente, quasi impaurito. Volevo restare dentro la pagina, chiedendomi in continuazione che cosa avrebbe pensato Bach, o certi colleghi. Riascoltandomi, ho capito che non mi piaceva: non ero io, suonavo con “l’accento” di un altro. Oggi preferisco fidarmi del mio gusto, come quando scrivo la mia musica o interpreto un traditional, un brano dei Radiohead o di Bill Monroe. Il mio mandolino “F-style” è la mia voce, quanto la mia voce parlata. Amo chi si dedica agli strumenti originali, ma non è il mio modo di essere musicista. Cerco il flow: tolgo di mezzo la testa, ascolto corpo e cuore finché il suono non mi convince. Quanto a Bach, possiamo solo immaginare ciò che avrebbe fatto oggi: non lo sapremo mai davvero».
C’è chi sostiene che non si possa capire il mandolino senza passare dal violino. È d’accordo?
«Io ho iniziato dal mandolino, quindi direi di no (ride ndr). Ma capisco l’osservazione: è pericoloso relazionarsi alla musica solo attraverso uno strumento. Bisogna considerarsi musicisti prima che strumentisti. Ho imparato moltissimo guardando fuori dal mio recinto: Mark O’Connor al violino, Béla Fleck al banjo, Edgar Meyer al contrabbasso, Tony Rice alla chitarra; e ancora Sam Bush, Alison Krauss. Poi il jazz, la classica, il rock. Sotto i vestiti dei generi c’è un’unica sostanza: il lavoro interiore sul suono».
In America la musica folk continua ad avere grande presa. Perché?
«Per lo spirito di chi l’ha inventata. Penso a Bill Monroe: mai nel vuoto, sempre in dialogo con Flatt & Scruggs, con gli Stanley Brothers. Io studio per capire che cosa l’ha resa diversa da ciò che c’era prima, così, se un giorno avrò un’idea davvero originale, saprò riconoscerla e lavorarci finché non diventi significativa per qualcun altro».
Un piccolo gioco: le dico il nome di un musicista con cui ha lavorato e lei mi dice la prima cosa che le viene in mente. Brad Mehldau.
«Libertà. Non giudica ciò che suona né ciò che suonano gli altri: reagisce, e così riesce a evocare magia pura, di continuo».
David Rawlings.
«Delight, delizia: cerca di stupirsi e di stupire. Se qualcosa non lo convince lo sente subito e cambia rotta, anche dentro un assolo».
Julian Lage.
«Profondità. Radici piantate nella terra, in cerca di verità musicali sotterranee. Improvvisare con lui significa aggrapparsi al suo carro e vedere che cosa possiamo trovare insieme: è un ascoltatore vorace».
Paul Simon.
«Caleidoscopico. Vede il mondo come un quadro cubista e lo racconta con precisione: «The Mississippi Delta shines like a national guitar» (cita il verso di una canzone di Simon, ndr). È curioso, un guerriero dell’ascolto. Anche a ottant’anni vuole ancora imparare. Ha quella attitudine esploratrice e maliziosa, quella voglia di cercare rogne musicali per insegnarci qualcosa».
I Milk Carton Kids: Kenneth Pattengale e Joey Ryan.
«Con loro mi diverto moltissimo: Kenneth è quello che solleva la pietra per vedere cosa c’è sotto; Joey è un pensatore profondo, empatico. Insieme sono un cocktail bellissimo di ossessioni musicali».
La sua musica sembra in costante ricerca di bellezza. È il suo obiettivo?
«Sì. Ma il mio vero obiettivo è cercare ciò che mi smuove. A volte è l’anti-bello: qualcosa che mi aiuti a filtrare l’orrore del mondo, come guardare un’eclissi attraverso una camera stenopeica. Ho però bisogno anche di speranza, è la mia forma di ingenuità ottimista, la stessa che porto nella conversazione musicale. Sì, inseguo la bellezza, ma non quella zuccherosa: il troppo “carino” nausea, non è reale. Preferisco l’impatto di un Pollock alla rassicurazione di una cartolina».
Un concerto che non dimenticherà mai.
«Proprio Salerno. Mi presero a Napoli, passammo davanti al Vesuvio e arrivammo in un antico teatrino all’italiana, con palchi minuscoli e la platea raccolta. Non parlavo italiano e molti non parlavano inglese: per un attimo ho pensato, “come faremo?”. Poi la prima nota: la stessa lingua, la musica. Per un’ora e mezza siamo stati famiglia; e alla fine, al retro, c’era mezza sala ad aspettarmi per salutare. Ho sentito di essere in una grande famiglia».
A cosa sta lavorando adesso?
«Il secondo volume delle Sonate e Partite è terminato e, con esso, il ciclo completo: uscirà in tempo per il tour italiano. Poi un nuovo album dei Punch Brothers: siamo a metà scrittura, sarà ambizioso e con una forte componente strumentale. Non abbiamo ancora il titolo, ma non vedo l’ora di farvelo ascoltare».