Un illusionista scanzonato, col la sigaretta accesa, all’angolo della bocca seria. Oggi, 23 anni fa, se ne andava il salentino Carmelo Bene, lasciando dietro di sé una scia di incomprensioni, provocazioni e intuizioni, che ancora sembrano sfidare ogni tentativo di classificazione. Geniale, sregolato, visionario, o forse più semplicemente un uomo che ha fatto del suo pensiero – disordinato, incoerente, a tratti sconvolgente – un’opera viva, in mutazione infinita.
Ogni parola scagliata, ogni spasmo in scena, andava oltre la letteratura e il teatro, oltre il declinabile, sfidando beffardo e sornione il sistema. E al netto degli eccessi, di quel fiume d’avanguardia mai rivendicata nelle vene gonfie, resta una domanda: come fare i conti con lui?
Il teatro contro la logica
Se c’è una certezza nell’opera di Carmelo Bene, è che il concetto di “teatro” non ha mai significato per lui la semplice rappresentazione di una realtà, ma una battaglia sanguinaria contro la razionalità e il significato della stessa. Il suo approccio al palco era, infatti, un atto di ribellione contro la tradizione, un disprezzo per la linearità borghese e la coerenza. Volutamente oscuro, Bene non ambiva a intrattenere, piuttosto a destabilizzare lo spettatore.
«Non parliamo, siamo parlati», il suo manifesto. La scena per Bene non era altro che un luogo di pura espressione, senza l’illusione di una verità accessibile o di una spiegazione definitiva. Il suo fu un teatro radicale che mirava a dissolvere la figura dell’attore tradizionale, a svuotare il palcoscenico di qualsiasi pretesa di realismo, per restituire il “buio musicale” originario, la scena nella sua essenza ancestrale. Niente storie, ma nuove forme di percezione, sollecitando emozioni e turbamenti oltre ogni logica.
Il pensiero di Bene
Nel 1988, intervistato da Antonio Debenedetti, Bene rivelava come l’Ulisse di James Joyce fosse stata per lui una rivelazione capace di sconvolgergli il pensiero. «Non pare scritto, ma sottratto alla scrittura stessa. L’Ulisse è soprattutto grandissimo cinema, immagini create dall’elettricità della lingua che si arrende ai significanti, si rende, ne crea degli incroci continui da cui non si esce e i personaggi non esistono».
E come il buon James, Bene deformava il linguaggio stesso, vivendolo come una prigione di cui liberarsi. Questo approccio alla lingua – tanto logica quanto destrutturata – diventa il cuore del suo teatro, un atto di rifondazione che trascendeva le convenzioni narrative. Non scriveva per il pubblico, ma per se stesso, con un linguaggio che trascende in poesia pura, astratta, incontenibile.
Etichettato come il padre della neoavanguardia italiana, ha sempre detestato questa definizione. «Basta con l’avanguardia! Mi si dia piuttosto del reazionario, dell’antidemocratico», rispondeva provocatorio. A volerla dir tutta però, la sua visione prescindeva ogni correntismo: non desiderava raccogliere i frutti della sua ricerca, ma piuttosto lanciare semi in un terreno fertile, in attesa che altri li cogliessero. Non ha mai cercato di fondare una scuola, non si è mai fatto portabandiera di un movimento. La sua indipendenza, il suo rifiuto di ogni tipo di catalogazione, rimangono le medaglie appuntate al petto, fiero, di un funambolo dell’assoluto.
Bene e il campo da calcio
Chi l’ha detto che gli intellettuali non pensano al pallone? Carmelo ne è stato amante passionale e contemplatore sensibile. Intuiva che il calcio, al di là della sua dimensione sportiva, potesse essere letto come fenomeno estetico. Non quando il gioco è svolto da calciatori ordinari, ma quando il talento di un singolo atleta, straordinario, trasforma il campo in un palcoscenico. Vedeva il calcio di un fuoriclasse come un atto artistico che eccede il semplice gioco, diventando un’espressione sensoriale. Il pallone, così inteso, non è solo un gioco: è un’arte in movimento, in cui il corpo del calciatore diventa strumento di una performance che emoziona e affascina, senza bisogno di spiegazioni.
E lui stesso, fosse stato un calciatore, avrebbe naturalmente vestito la maglia numero 10, disegnando parabole imprevedibili, tra doppi passi e lampi improvvisi: allora tutta la sua opera stessa sarebbe stata racchiusa in un colpo di tacco, o in un calcio di punizione dal limite, un tiro a giro che si infila all’incrocio, sotto gli occhi di un portiere inerme, sconsolato e anche un po’ frustrato.