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Cala il potere d’acquisto delle famiglie italiane: in cinque anni -10%. E gli stipendi inferiori a quelli del 2004

Negli ultimi cinque anni i salari contrattuali italiani hanno perso oltre il 10% del loro potere d’acquisto, una contrazione che pesa sulle tasche delle famiglie e che riflette le tensioni inflazionistiche esplose dopo la pandemia. Lo evidenzia il Rapporto annuale dell’Istat, che traccia una fotografia dettagliata della condizione economica del Paese, tra luci e molte ombre.

Salari giù, inflazione su

Tra il 2019 e il 2024, secondo l’Istat, le retribuzioni contrattuali hanno subito una perdita del 10,5% in termini reali. Un dato allarmante che migliora solo parzialmente se si guarda alle retribuzioni lorde di fatto per dipendente – che comprendono premi, straordinari e cambiamenti nella composizione dell’occupazione – la cui perdita è contenuta al 4,4%. Un valore comunque peggiore rispetto a quello registrato in Spagna (2,6%) e Germania (1,3%). Il momento più critico è stato toccato a fine 2022, con una perdita del potere d’acquisto del 15%. Dopo un leggero recupero nel 2024, il dato è risalito nuovamente al 10% a marzo 2025, segno che l’effetto dell’inflazione resta pesante e persistente. Nel 2024 il mercato del lavoro ha mostrato segnali di vitalità: l’occupazione è aumentata dell’1,5%, con 352mila occupati in più, e il tasso di disoccupazione è sceso al 6,5%, con 283mila disoccupati in meno. Tuttavia, il rovescio della medaglia è rappresentato dalla flessione della produttività: il lavoro per occupato è calato dello 0,9%, quello per ora lavorata dell’1,4%, a causa dell’aumento dell’occupazione in settori a bassa produttività, come turismo e ristorazione.

Produttività in calo

La produttività del lavoro nel settore privato è scesa del 2%, a fronte di una contrazione più lieve della produttività del capitale (-0,2%). L’Istat sottolinea che, considerando anche l’occupazione indipendente, il reddito reale da lavoro per occupato è oggi superiore ai livelli del 2014, ma inferiore del 7,3% rispetto al 2004, anno di riferimento pre-crisi. Per i soli dipendenti, la perdita è del 5,8%, colpendo tutte le fasce d’età. Eppure, in controtendenza, il reddito familiare equivalente – che tiene conto della composizione e delle condizioni delle famiglie – è cresciuto del 6,3% nello stesso periodo. Merito soprattutto dell’ingresso di un secondo stipendio in molte famiglie e della riduzione della dimensione media familiare, con meno nuclei numerosi e più proprietari di casa.

Lavoratori in povertà

Un dato particolarmente preoccupante è quello che riguarda la povertà o l’esclusione sociale, che coinvolge oggi il 23,1% della popolazione italiana, in aumento di 0,3 punti rispetto al 2023. Il problema è fortemente localizzato: nel Mezzogiorno si tocca il 39,8%, mentre nel Nord-est l’indicatore scende all’1,3%. I più esposti sono i giovani sotto i 35 anni che mantengono la famiglia (30,5%), le coppie con tre o più figli (+2,8 punti rispetto al 2023), i monogenitori (+2,9) e gli anziani soli (+2,3). Più contenuto, ma sempre preoccupante, il dato per le coppie con uno o due figli (circa il 19%). Sul fronte della grave deprivazione materiale e sociale, la media nazionale è del 4,6%, ma con forti squilibri territoriali: appena l’1,3% nel Nord-est, ben il 12,1% al Sud. Gli indicatori più diffusi di disagio economico sono l’impossibilità di andare in vacanza (31,4%), la mancanza di risorse per spese impreviste (29,9%) e la rinuncia a spese per il tempo libero (9,6%).Le famiglie più vulnerabili sono quelle con percettori giovani (meno di 35 anni, 38,7% con difficoltà nelle spese impreviste), straniere (54,7%) e monogenitoriali (36,2%).

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