Ridare dignità ai disabili grazie a una carrozzina verticalizzante alla moda, che consente di godere di alcuni semplici riti della vita quotidiana, come quello di prendere un caffè al bancone di un bar, e di abbattere quindi non solo le barriere architettoniche ma anche quelle sociali.
È l’obiettivo di Limitless, progetto vincitore della sesta edizione di Innovation Village Award di Napoli, nato da un’esigenza personale del leccese Alessio Sansò, che vive la sua vita tra sedia a rotelle e dispositivi medici. Fisioterapista, docente universitario e ricercatore clinico, due anni fa ha iniziato la ricerca per una carrozzina che gli permettesse di essere più libero e fargli guardare la vita da una prospettiva diversa, “verticale” come tutti e con la possibilità di muoversi elettricamente senza l’uso delle mani.
Alessandro, come nasce l’idea?
«Io ho una disabilità motoria negli arti inferiori, sono nato così. Ho sempre utilizzato fin da bambino ausili, da tutori a stampelle. La carrozzina ho iniziato a usarla a 18 anni. Il progetto nasce nel 2019 (la startup nel 2022, ndr): stavo cercando su internet una carrozzina che potesse essere esteticamente più carina di quelle presenti in commercio. Quando mi sedevo sulla mia notavo come le persone mi guardavano, mi osservavano. Mi rendevo conto di quanto il mondo fosse poco accessibile non solo per le barriere architettoniche, ma anche per quelle sociali. Si tratta banalmente di non poter prendere il caffè al bancone del bar. Dalla mia ricerca non ho trovato nulla sul mercato che potesse verticalizzare e che fosse elettrico, economicamente accessibile, con un bel design».
Così hai deciso di disegnarne una tu?
«Esatto, buttai giù su un pezzo di carta uno schizzo. Ma non sapevo come andare avanti, né a chi chiedere o come procedere. A quell’epoca frequentavo un master universitario e una mia collega mi indirizzò verso il mio attuale socio, un designer. Lui inizialmente era un po’ scettico. Quando gli ho spiegato quale fosse la ragione profonda del progetto si è convinto e cominciammo a lavorarci anche di notte».
Come spiegheresti oggi questa ragione profonda?
«Quando ho realizzato che la parola chiave del progetto era dignità mi si è chiuso un po’ il cerchio. Un disabile ha già tutti gli occhi puntati addosso. L’unica cosa che può desiderare sono almeno dei dispositivi che abbiano un design comune. Dare la possibilità alle persone di potersi sentire alla stessa altezza degli altri. La verticalità è un concetto fondamentale per un disabile, a cui si spera sempre di poter tornare. Lo stare in piedi è qualcosa che ti cambia totalmente la visione, ti fa sentire sano, e psicologicamente più forte».
Quando contate di mettere in commercio la carrozzina?
«A gennaio avremo il primo prodotto, che porteremo direttamente negli States, a New York. L’obiettivo è di venderne una cinquantina entro il prossimo anno ad associazioni o fondazioni che con noi vorranno testarne la funzionalità su diversi tipi di disabilità, così da raccogliere dati per realizzare un secondo dispositivo molto più aderente alle necessità. La speranza è di incontrare sia disabili sia caregiver pronti ad aiutarci a perfezionare il lavoro».
Durante questo percorso hai girato molto per presentare il progetto. Hai mai avuto la sensazione che, nonostante la vostra fosse un’idea brillante di per sé, si tenda a “premiare” la disabilità?
«Quando abbiamo tirato fuori il prodotto, è stato abbastanza pesante, perché abbiamo fatto un sacco di eventi e siamo andati in giro sia in Italia che fuori. Penso due cose: la prima è che sicuramente c’è un occhio di riguardo al fatto che magari io parlo in carrozzina. Detto questo l’obiettivo dell’azienda è appunto ridare dignità. La dignità la ridai anche facendo capire che investire in progetti di innovazione sociale non vuol dire fare beneficenza. Ci tengo a dirlo perché in realtà noi dietro abbiamo un business plan profittevole e spesso mi sono invece ritrovato a vedere persone che investivano tantissimo in altri progetti che si rivelavano bolle, mentre il nostro non veniva preso in considerazione. Secondo me proprio perché si tende a pensare che essendo un progetto sociale sia poco profittevole. In ogni caso noi abbiamo vinto tante volte, è vero, ma abbiamo perso altrettante volte. Devo dire che nel bene o nel male c’è abbastanza onestà nella valutazione dell’idea».