Da un po’ di tempo, in sede politica, si discute di riforma elettorale. Il centrodestra avverte il pericolo di perdere preziosi collegi in Puglia e Campania e vuole evitare di perdere la maggioranza parlamentare. Ma la discussione più accesa è sulla presenza del nome del candidato premier sulla scheda elettorale.
La destra la vuole, la sinistra no. Posizioni diversificate si registrano anche nelle stesse coalizioni. La (non assoluta) novità presenta aspetti positivi e negativi. Fra quelli positivi c’è la speranza che l’indicazione del premier riaccenda l’interesse per il voto, riavvicinando gli elettori alle urne.
Con una indicazione precisa, si rafforza l’intera compagine, si rende chiaro il programma, ne guadagna l’offerta politica. Ma c’è il rischio che la compattezza rappresentata dalla candidatura unica sia solo un effimero escamotage elettorale. Che, vinte le elezioni, al momento di governare il Paese, riemergano le divisioni.
In Paesi in cui vige questo sistema elettorale, come ad esempio gli Usa, il problema è stato superato facendo ricorso alle primarie. Ogni coalizione si confronta, e si scontra, sui nomi che i singoli partiti propongono.
Si vota, si sceglie democraticamente il candidato unico e si va alle elezioni generali. Un leader scelto con le primarie può garantire compattezza e la vita del governo. Tutto il resto è, per dirla francamente, fuffa.










