Il primo italiano entrato a far parte dell’Opus Dei è stato mons. Francesco Angelicchio, esattamente il 9 novembre del 1947. Di padre vichese, romano d’adozione, «ebbe la gran sorte di vivere accanto al santo fondatore dell’Opera, San Josè Maria Escrivà», per vari anni fino alla sua ordinazione sacerdotale avvenuta a Roma nel 1955.
Il papà, maresciallo dei carabinieri, emigrò giovanissimo da Vico del Gargano, terra d’origine, dove risiedono tutt’ora i suoi parenti, per svolgere la carriera militare nell’Arma.
Perché la storia di un vichese in Vaticano?Papa Francesco in tv e l’episodio che lo ha visto protagonista in un negozio di dischi a Roma, hanno portato a rispolverare un ricordo. Mi sembra ancora di sentire le parole al telefono, del «Prelato d’onore di Sua Santità», una carriera di avvocato, laureato con un grande del diritto, Arturo Carlo Jemolo, sottotenente di fanteria e paracadutista della Folgore, quando mi raccontava della sua vita e della sua incredibile e meravigliosa esperienza al servizio della chiesa, illuminato da quel sacerdote spagnolo che 55 anni dopo sarebbe stato canonizzato da Giovanni Paolo II in piazza S. Pietro, che accolse mons. Angelicchio «come un primogenito». La sua vocazione fece scalpore in famiglia e non solo.
Nell’ultima telefonata che ebbi, gli chiesi una sintesi delle sue più importanti mansioni e mi rispose con una garbata risata. «Nel giugno del 1960, mi disse con un tono non più ironico, sono stato nominato da papa Giovanni XXIII, direttore dell’Ufficio nazionale delle Comunicazioni sociali della Cei incarico che ho retto per un decennio dandomi la possibilità di conoscere i principali protagonisti del cinema, del teatro, e della radio-televisione, con i quali sono entrato in buona amicizia: dai produttori Rizzoli, De Laurentis, Bini, Lombardo, Cristaldi, Bernabei, ai recenti Rossellini, Fellini, De Sica, Pasolini, Olmi, Cavani, Troisi e gli attori De Filippo, Alberto Sordi, Claudia Cardinale, Gina Lollobrigida, Giulietta Masina, Anna Magnani, Mangano, Schiaffino e altri. Io però non volevo accettare questo incarico, ma poi, per le insistenze del Santo fondatore dell’Opera e per l’autorità di papa Giovanni XXIII mi sono arreso e non me ne sono pentito perché mi è stata data la possibilità di fare un po’ di bene in ambienti difficili e non sempre in sintonia con lo spirito del Vangelo».
Quando chiesi a monsignore del suo ruolo di censore, la risposta fu tra le più diplomatiche. «Un mio sì o un mio no a un film che in qualche maniera non era in linea con i principi cristiani, poteva determinare una catastrofe al botteghino, ecco perché ero titubante nell’accettare l’incarico. Ma il santo Padre ha voluto fortemente che io provassi ad afferrare con una mano le anime in procinto di cadere nel baratro dell’inferno, lui mi avrebbe tenuto l’altra mano».
Amico di Andreotti, mons. Angelicchio non volle vedere il film dedicato al politico, più volte presidente del Consiglio, «perché al contrario di come appare in quel film, disse testuali parole, Giulio è un buon cristiano». Poi aggiunse una storiella curiosa.
Famoso l’episodio in cui una sera, (papa Montini era stato eletto da poco) il segretario di Paolo VI lo chiamò al telefono poiché il Santo Padre desiderava vedere un film, fidandosi chiaramente delle scelte del giovane sacerdote. «Non chiusi occhi tutta la notte, ma non esitai nella scelta del film. Scelsi “Luci d’inverno” di Ingmar Bergman, sulla crisi delle vocazioni, argomento molto sentito da Paolo VI. E poi la biografia di Papa Roncalli “E venne un uomo”, prodotto dal canadese Saltzman, che aveva anche realizzato le prime pellicole dell’Agente 007, oltre al famoso “Otto e mezzo” di Fellini. In verità ho suggerito anche di affidare la regia di “E venne un uomo” a Pasolini. Che azzardo!»
La sua voce, a tratti insicura, lasciò intendere un capolinea sempre più vicino. Morì nel 2009.