In un mondo in cui tutto passa attraverso uno schermo, imparare a distinguere tra ciò che mostriamo e ciò che siamo diventa una sfida quotidiana. I social media – Facebook, Instagram, TikTok, LinkedIn, YouTube e chi più ne ha più ne metta – ci avvicinano, ma a volte ci allontanano, persino da noi stessi. Il mondo giovanile è il più vulnerabile.
Quante ore molti giovani passano ogni giorno davanti allo schermo del proprio telefono? Tre? Quattro? Cinque? Magari anche di più.
A seconda dell’uso che se ne fa, i social possono essere un ponte o una barriera. Possono aiutare a connettersi oppure isolarsi, soprattutto se diventano un rifugio da emozioni e relazioni autentiche. Da un lato permettono di restare in contatto con amici, familiari e conoscenti in ogni parte del mondo e offrono spazi per trovare gruppi d’interesse comune e condivisione di esperienze e idee, stimolando il dialogo e la consapevolezza sociale; dall’altro, allontanano. La facilità di connessione può favorire rapporti meno autentici, dove si privilegiano like e follower rispetto alla profondità del legame. L’esposizione continua a vite idealizzate può generare ansia, insicurezza e un senso di inadeguatezza, alimentando la solitudine interiore, fino a far perdere il contatto con i propri desideri autentici, sostituendo il bisogno di approvazione esterna alla conoscenza di sé.
Sono la prima cosa che guardiamo al mattino e l’ultima prima di dormire. Fanno parte della nostra quotidianità, delle nostre relazioni, perfino del nostro modo di vedere noi stessi. I social possono unire, farci scoprire nuovi interessi, darci ispirazione. Sono diventati uno specchio in cui ci guardiamo ogni giorno, ma spesso quello specchio riflette un’immagine distorta; ci mostra vite perfette, corpi perfetti, relazioni perfette, scatti patinati, sorrisi studiati, felicità messa in mostra come in una vetrina. Ma dietro quegli schermi, spesso si nascondono insicurezze, fragilità, paure. Siamo circondati da maschere digitali e finiamo per dimenticarci chi siamo davvero. L’autostima, soprattutto in età evolutiva, è un equilibrio delicato. Se si inizia a misurarla in base a like, follower e commenti, il rischio è di crollare al primo confronto e di legare il proprio valore a un numero: un numero che può salire o scendere, ma che non rivela davvero chi siamo.
Poi c’è un altro lato ancora più duro: quello dell’odio online, del cyberbullismo, dei commenti cattivi, delle prese in giro e delle battute pesanti, a volte anonime, altre da persone conosciute. Parole scritte con leggerezza, magari “per scherzo”, che però lasciano ferite profonde, invisibili; ferite che ci portiamo dentro anche quando sembriamo sorridere. E il problema è che, quando accade online, spesso nessuno se ne accorge, si ha paura di parlarne, di essere giudicati, di non essere capiti.
C’è un paradosso enorme in tutto questo: non si è mai stati così connessi, eppure in tanti si sentono terribilmente soli. Abbiamo centinaia di “amici” online, ma a volte ci sentiamo invisibili nella vita reale.
È bene chiarire che i social non sono il male assoluto; possono dare spazio a chi non trova spazio altrove; possono essere un mezzo straordinario per esprimersi, per imparare, per restare in contatto con le persone che si amano; possiamo usarli per far sentire la nostra voce, per condividere idee, sogni, progetti. Tutto dipende da come li usiamo.
Cosa possiamo fare davvero? Possiamo iniziare da piccole cose: osservare come ci sentiamo dopo aver passato tempo online, ci sentiamo meglio o peggio? Scegliere cosa seguire: contenuti che ci fanno crescere, non che ci fanno sentire sbagliati; ricordarci che possiamo dire “basta” quando qualcosa ci fa male; cercare il contatto con le persone vere, quelle con cui si può dialogare guardandosi negli occhi. Parlare, chiedere aiuto a un amico, a un adulto, a qualcuno di cui ci fidiamo. E possiamo fare un’altra cosa importante: essere più gentili online. Perché anche un breve messaggio positivo può cambiare la giornata di qualcuno, può far sentire meno solo chi legge.
Conclusione: chi siamo davvero? Non siamo un profilo. Non siamo un numero di follower o di like. Siamo molto di più. Non dobbiamo permettere a uno schermo di decidere quanto valiamo. La nostra verità non ha bisogno di approvazione per essere reale. È facile confondere ciò che mostriamo con ciò che siamo. Un profilo curato, una foto filtrata, una serie di post ben pensati: tutto questo può diventare una maschera, una vetrina costruita per ottenere approvazione. Ma la nostra identità non può essere ridotta a un algoritmo né misurata in cuori, like o follower. Ci siamo abituati a cercare conferme esterne per capire quanto valiamo: un commento positivo, una visualizzazione in più, una reazione immediata. Ma il rischio è grande: iniziamo a giudicarci attraverso lo sguardo degli altri, perdendo il contatto con la parte più vera di noi stessi.
Possiamo scegliere di usare i social in modo diverso. Possiamo imparare a guardarci dentro, a conoscerci meglio, a volerci più bene e costruire, un passo alla volta, una identità solida, autentica, che non ha bisogno di approvazione, ma solo di verità, rispetto e amore per noi stessi.
Bentornato,
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