L’autonomia delle regioni del Nord ha sempre rappresentato un punto di arrivo del movimento leghista, ed è quindi comprensibile che con questa formazione di Governo, nei primi cento giorni, sia già emerso un dibattito su una proposta di autonomia differenziata formulata dal ministro Calderoli. Personalmente, come rettore di un ateneo meridionale, sono preoccupato per l’assenza di analisi che dovrebbe precedere una decisione così importante.
Da più di un decennio assistiamo a un susseguirsi di politiche relative al mondo della ricerca e della formazione universitaria che favoriscono l’addensamento delle competenze in una decina di atenei nazionali, che sono collocati prevalentemente nel Centro e nel Nord Italia. Il presupposto corretto del contenimento della spesa pubblica e del perseguimento di politiche meritocratiche ha generato un depauperamento sistematico del Mezzogiorno, compensato solo in parte dall’iniziativa delle regioni e dal flusso dei finanziamenti europei. Si premiano con ingenti risorse ministeriali atenei che hanno maggiori rapporti scientifici con le imprese e che attraggono più studenti, ma inevitabilmente questo significa aumentare le distanze con quelle aree del paese dove ci sono meno imprese e dove vi è una migrazione di talenti per cercare lavoro. La sfida principale per il Mezzogiorno è di non rimanere nelle retrovie dello sviluppo che gli indirizzi di politica economica dell’Unione Europea contribuiranno a realizzare nei prossimi anni. I rischi sono macroscopici e riguardano la tenuta sociale del Paese, non solo l’economia di un’area geografica.
Senza un’adeguata analisi e senza un ampio dibattito pubblico rischiamo di produrre soluzioni frettolose e inadeguate alle sfide che siamo chiamati ad affrontare. Prima ancora dei cambiamenti, inoltre, i timori dei cambiamenti causano incertezze per il futuro.
Il dibattito sull’autonomia differenziata in questi giorni ha trovato nuovo vigore in occasione della presentazione da parte del Governo della bozza di un disegno di legge per la sua definitiva attuazione. Il Piano è stato presentato come una opportunità per il Sud laborioso, ma la percezione dei rischi connessi al proprio futuro, la situazione di sofferenza in diversi settori rispetto alle regioni settentrionali, confermata da ogni indicatore di tipo economico e sociale, rende questa proposta quantomeno controversa. La bozza sembrerebbe per il momento solo in parte recepire i dati degli indicatori che evidenziano una diversità delle situazioni di partenza tra le zone del Paese e individuano, allo stesso tempo, le urgenze da cui sarebbe necessario ripartire. L’articolato legislativo è ispirato dall’idea che le regioni italiane, vedendosi enormemente ampliata la loro autonomia – quasi da diventare di fatto a «statuto speciale» – agiscano come soggetti autonomi su alcune materie e in concorrenza virtuosa tra di loro, determinando un complessivo sviluppo del Paese secondo le proprie caratteristiche e potenzialità. A porre rimedio al divario territoriale sono previsti, secondo l’articolo 117 della nostra Costituzione, i «livelli essenziali delle prestazioni» (Lep) che «devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» e rimandano ai principi di eguaglianza e coesione nazionale. I Lep, tuttavia, appaiono, in un tessuto sociale come il nostro, indeboliti dalle crisi succedutesi in questi anni, in particolare perché trascurano le diversità dei punti di partenza e le profonde disparità tra le regioni meridionali e quelle settentrionali. I criteri posti in essere per attuare l’autonomia differenziata rischiano di rendere plausibile, in questo senso, una comparazione artificiosa da cui non possono derivare prospettive di rilancio dell’Italia, bensì l’aggravarsi delle sue questioni più annose. D’altra parte, il Sud non può limitarsi a una rivendicazione delle risorse o alla semplice protesta che finirebbero per rafforzare i triti stereotipi sul Mezzogiorno. Gli studenti in piazza che richiedono a viva voce un rafforzato diritto allo studio, più esteso e non meramente meritocratico e competitivo, la dicono lunga su un ripensamento del sistema scuola. Anche il Pnrr avrebbe dovuto rappresentare un’occasione per modernizzare il Paese, per investire in maniera razionale le risorse messe a disposizione, per superare le diseguaglianze e favorire l’inclusione sociale, eppure anche in questo caso, solo pochi atenei stanno beneficiando pienamente di questi miliardi di euro. Serve urgentemente un momento di analisi, di dibattito pubblico collettivo e trasparente per evitare, come sta avvenendo con il Pnrr che una politica emergenziale trasformi delle buone premesse nel vantaggio di alcuni e non nella crescita dell’intera comunità nazionale.
Pierpaolo Limone è Rettore dell’Università di Foggia