Risparmiateci le bandiere regionali e la retorica delle giornate storiche. Ma risparmiateci pure i piagnistei dell’Italia improvvisamente spaccata e da salvare. Anziché esultare o imprecare secondo convenienza e posizionamenti, fateci capire. Sinceramente, direbbe Annalisa.
C’è stato un tempo in cui il mancato sviluppo del Sud era avvertito e trattato come una questione nazionale. Il primo presidente della Lombardia, Piero Bassetti, affermava che lo sviluppo del Sud era «un preciso interesse dei lombardi». Un anno dopo, il Piemonte adottava il suo primo Statuto ricordando che «la Regione opera per superare gli squilibri territoriali, economici, sociali e culturali esistenti nel proprio ambito e fra le grandi aree del Paese, con particolare riferimento allo sviluppo del Mezzogiorno». Principi simili erano presenti anche negli statuti dell’Emilia-Romagna, della Liguria e della Toscana.
Oggi in quelle Regioni, a prescindere dalle maggioranze politiche presenti, sarebbe impossibile approvare provvedimenti del genere. È cambiato tutto: i movimenti politici a base locale e territoriale (non la sola Lega); la riforma del Titolo V della Costituzione voluta dal centrosinistra; i referendum regionali del 2017 con cui il 96% e il 98% dei cittadini lombardi e veneti hanno chiesto più autonomia per le proprie regioni; la pronuncia nello stesso senso del Consiglio regionale dell’Emilia-Romagna.
Ancora, la firma nel 2018 delle pre-intese sull’autonomia tra il Governo dell’epoca e i presidenti delle tre Regioni neo-autonomiste, Bonaccini compreso. Tutto è cambiato, tranne la condizione del Sud. Né l’iniziale fase solidale del regionalismo italiano, né quella degli ultimi vent’anni che potremmo definire più centrifuga o egoista, hanno modificato i rapporti di forza nel Paese: le difficoltà del Meridione restano tutte irrisolte ed anzi, si aggravano. Su questo punto è evidente che hanno fallito tutti: i governi centrali, quelli delle Regioni del Mezzogiorno, i federalisti e i centralisti, i falchi e le colombe, i celti e i mediterranei. Tutti. Perciò nessuno ci venisse adesso a insegnare come si fa e cosa è meglio.
Il tempo è scaduto. Ed è scaduto ieri. Nei fatti, l’Italia è già divisa e attraversata da tantissime fratture. Tra Nord e Sud, certo, ma anche tra campagna e città, montagna e pianura, entroterra e costa. Ce lo dicono tutti gli indicatori economici e sociali e ancor di più ce lo dicono le centinaia di migliaia di giovani che lasciano il Sud o le aree interne nell’indifferenza generale. Ce lo dicono i viaggi della speranza per studiare, lavorare, curarsi. Ce lo dicono i paesi che non ce la fanno più, le domande irrisolte di maggiori attenzioni e rappresentanza, di servizi e infrastrutture, di politiche specifiche e tempestive.
Ecco, i partiti potranno scegliere di innalzare le barricate, potremo assistere a una nuova lunga stagione di scontri politici e istituzionali oppure aspettare di vedere il primo Governatore meridionale chiedere l’applicazione della legge (io un sospetto ce l’ho!), ma oggi, adesso, nessuno può negare l’evidenza del dato di partenza: quello di un Paese già differenziato e, in buona parte, inascoltato e male amministrato. E allora si faccia in modo che la necessità di dare piena attuazione all’articolo 116 della Costituzione, che i miliardi richiesti per l’attuazione di questa legge, che la necessità di individuare i famigerati Lep da garantire equamente su tutto il territorio nazionale, più che il terreno della propaganda diventino l’occasione per la nascita di un nuovo giovane meridionalismo orgoglioso e coraggioso, che accetta la sfida, che si mette alla testa del suo destino, che decide di sperimentare nuovi modelli non necessariamente per gentile concessione altrui, che si incarica di dimostrare a tutti che si può essere Sud di nessun Nord.
Bentornato,
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