Subito dopo l’unità d’Italia, studiosi, intellettuali, politici, del calibro di Nitti, Salvemini, Gramsci, Dorso, Morandi, Saraceno, Rossi-Doria, Chiaromonte, Amendola, De Martino, Compagna, Galasso e le principali forze politiche (specie Partito socialista e Partito comunista), ebbero chiara l’esistenza di una questione meridionale. Nel 1950, pur tra mille polemiche (Psi e Pci accusarono la Dc di voler fare del Sud un serbatoio elettorale, con politiche clientelari) Alcide De Gasperi istituì la Cassa per lo sviluppo del Mezzogiorno, ente con un budget previsto di circa 100 miliardi di lire l’anno. Economisti e storici sono concordi nell’affermare che almeno fino all’inizio degli anni ’70, la Casmez, pur tra errori e difetti, abbia costituito un elemento “virtuoso” nel superamento del divario Sud-Nord. Il luogo comune di una irreversibile condizione di un Nord sempre più “ricco”, autorevole, attivo protagonista in campo economico, e di un Sud eternamente “arretrato”, che non potrà mai essere “uguale” al Nord, è smentito dagli anni d’oro, se così si possono chiamare, della Cassa per il Mezzogiorno, in cui è documentato un solido e durevole processo di “convergenza” tra Sud e Nord del Paese.
Circa venti anni e i successivi venti dimostrano di come il Sud abbia partecipato da protagonista allo sviluppo, alla modernizzazione del Paese, che da un certo punto si può dire incompiuto e/o interrotto. Tutto, prima e seconda fase, per precise scelte politiche ed economiche. Tra il ’50 ed il ’70 il nostro paese è stato comunque “governato” da una spinta all’unità. E che ha cercato di rafforzare l’economia delle regioni più deboli, con vantaggio per crescita e sviluppo di tutta l’Italia, mirando ad aumentare uniformità, tra tutti i cittadini e territori, nella fruizione di “servizi” nazionali (salute e istruzione prima di altri). L’economista Gianfranco Viesti, docente dell’Università di Bari, afferma che «quando l’Italia è divenuta sostanzialmente più unita, si è sviluppata maggiormente; il miglioramento di alcuni dei suoi territori ha favorito il miglioramento degli altri, in un processo a somma fortemente positiva».
Dagli anni ’80 (nel 1984 la Casmez fu messa in liquidazione, e poi sostituita dall’AgenSud, anch’essa chiusa nel 1993) i soldi sono stati dapprima “dirottati” alla riconversione industriale delle aziende del Nord; poi ha fatto irruzione, sotto l’incalzare della crisi, la pulsione secessionista della Lega Nord. La politica nei confronti del Sud è radicalmente cambiata, la questione meridionale messa da parte, per far nascere una finta “questione settentrionale”, che è tutt’al più una questione derivata da quella, “reale”, meridionale: se si risolvesse la questione meridionale, difatti, molti autorevoli studiosi sono del parere che si risolverebbe immediatamente, automaticamente, la “cosiddetta questione settentrionale”.
Dopo la scellerata riforma del Titolo V del 2001 e la oscena richiesta di autonomia differenziata, le oltre 500.000 firme già raccolte, per chiedere un referendum abrogativo della legge Calderoli che regola l’autonomia differenziata, sono, infine, un segnale significativo della consapevolezza di tanti cittadini che è tempo di tornare a pensare al Sud, quindi all’Italia tutta.
Senza quindi voler “magnificare” oltre misura le azioni messe in campo dalla Casmez, non si può negare che in quel periodo l’investimento di capitali aggiuntivi e strategici per lo sviluppo del Sud, aiutò a colmare il divario tra macro-aree geografiche, e aiutò lo sviluppo economico, sociale, produttivo, e l’occupazione, in tutto il Paese.
Alcuni ritengono utile la ricostituzione di una “nuova” Casmez. È ovvio che una riproposizione di un “istituto” vecchio ormai di 70 anni non ha senso; quello che avrebbe senso, magari (ad esempio, una proposta della SviMez di qualche tempo fa), è una Agenzia nazionale che coordini e pianifichi in maniera strategica interventi, speciali e aggiuntivi, nel Mezzogiorno. Per aumentare la coesione territoriale, la perequazione, la crescita economica delle aree più disagiate. Bisogna essere chiari su questo punto: i fondi “europei” non devono essere considerati gli unici fondi per investimenti in industrializzazione o formazione o ricerca, che vanno a sostituirsi ai fondi ordinari nazionali, come di fatto è invece accaduto, nel silenzio e/o disinteresse quasi generale, in questi ultimi 20 anni.
Lo strumento legislativo esiste già, è il comma 5 dell’art 119 della Costituzione: “Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntuive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni”. La Costituzione va applicata? C’è il 116, ma c’è anche il 119.