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Una musica “ribelle” alla ricerca di verità e cambiamento

“La musica ribelle, che ti vibra nelle ossa…”: sono le parole di Eugenio Finardi che mi risuonano in testa ogni volta che penso al potere della musica. Ribelle perché capace di rompere schemi, di farci sentire vivi, di raccontarci il mondo con occhi nuovi. È questa forza che emerge, immancabilmente, ogni anno nella settimana di Sanremo, quando l’Italia intera si ferma per ascoltare, discutere, criticare e, a volte, lasciarsi emozionare dalle canzoni che si fanno portavoce del presente. Ma quanto davvero le parole che cantiamo, che ripetiamo come slogan, ci rappresentano? E quanto, invece, rischiano di diventare riflessi distorti di chi siamo?

Sanremo, nel bene e nel male, è lo specchio del nostro tempo. E quest’anno, tra le tante voci e i generi che si intrecciano sul palco dell’Ariston, una canzone ha attirato la mia attenzione: quella di Serena Brancale. La sua voce, calda e profonda, racconta un amore puro, declinato in una forma che non sempre trova spazio tra le narrazioni più comuni. È un amore che si nutre di radici, di appartenenza, di legami con la propria terra e le proprie origini, nell’alternanza tra il dialetto e l’italiano. La diversità come unione e celebrazione di una vera umanità: quella fatta delle proprie radici e del dialogo, interiore ed esteriore, che oggi è sempre più difficile mantenere.

Il contrasto emerge netto se pensiamo a molte altre canzoni di Sanremo, che spesso si trasformano in slogan privi di profondità, ripetuti senza riflettere sul loro reale significato. Parole che, a una prima lettura, sembrano raccontare libertà, amore, inclusione, ma che, analizzate più a fondo, svelano contraddizioni e, talvolta, messaggi tutt’altro che etici. Penso a quei ritornelli che diventano virali per la loro immediatezza, ma che riducono emozioni complesse a frasi fatte, svuotandole del loro potenziale trasformativo. È come se la musica, invece di educare o sensibilizzare, finisse per inseguire i “trend topic” senza offrire davvero nuovi punti di vista. Le parole, decontestualizzate e svuotate del loro significato, diventano pericolose. E oggi, nell’era dei social, un ritornello può trasformarsi in uno strumento di polarizzazione, anziché un ponte per avvicinare le persone.

E allora, cosa dovrebbe fare la musica? Tornare a essere ribelle, forse. Non nel senso di gridare più forte, ma di farsi portavoce di verità profonde, di raccontare il presente con autenticità, senza paura di affrontare temi scomodi. Esattamente come fa Serena Brancale, con il suo inno all’amore puro e diverso, che ci invita ad abbracciare ciò che ci rende unici. Perché la musica vera non si limita a intrattenere: accende riflessioni, risveglia emozioni, crea connessioni. Lo ha insegnato un altro grande come Pino Daniele, che in canzoni come “Terra mi”a sapeva raccontare il senso del vissuto attuale con lucidità e profondità.

Sanremo, con tutte le sue imperfezioni, resta un’occasione unica per riflettere su cosa significhi oggi scrivere e ascoltare canzoni. Le canzoni possono essere molto più che semplici melodie da canticchiare: possono diventare strumenti di cambiamento, di consapevolezza, di ribellione. “Sono solo canzonette”, diceva qualcuno. Ma non fatevi ingannare! Dietro quei ritornelli accattivanti si celano spesso messaggi tutt’altro che etici, pronti a insinuarsi nel subconscio collettivo.

E allora, durante questa settimana di Sanremo, iniziamo ad ascoltare non solo con le orecchie, ma con il cuore. Cerchiamo quelle parole che, come “la musica ribelle”, ci ricordano chi siamo e chi possiamo diventare.

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