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Una grande chance per il Sud

I risultati dell’indagine sulla cosiddetta “settimana cortissima”, condotta dalla società di ricerca Autonomy su 61 aziende e 2.900 lavoratori nell’intero Regno Unito, lasciano ben sperare. Quattro dipendenti su dieci meno stressati e più in salute, la metà entusiasta della possibilità di conciliare più facilmente impegni professionali e personali, la produttività media delle aziende in ascesa: tutto sembra giocare a favore di un’organizzazione del lavoro “spalmata” su quattro giorni.

In effetti, una simile rivoluzione del mercato e della cultura del lavoro potrebbe accompagnare, come il segretario generale della Cisl ha recentemente ribadito in un’intervista al Mattino, la trasformazione tecnologica, la redistribuzione degli impegni tra i dipendenti, la salvaguardia dell’occupazione, l’aumento dei salari, il rilancio degli investimenti e della produttività. Non solo al Nord, ma anche e soprattutto in quel Sud dove i livelli di occupazione e dei salari sono storicamente più bassi, come un dossier dell’istituto Tagliacarne ha evidenziato pochi giorni or sono. Anche in questo caso, però, è indispensabile una massiccia dose di buon senso per evitare che la settimana corta si trasformi nell’ennesimo boomerang.

Preliminarmente è indispensabile trovare un punto di equilibrio che non danneggi la produzione, da un lato, ed escluda qualsiasi riduzione dei salari, dall’altro. Senza dimenticare la necessità di individuare con attenzione i settori ai quali la settimana cortissima possa essere opportunamente applicata. In questa prospettiva, l’introduzione della settimana corta non può non essere accompagnata da incentivi alle imprese, investimenti nel mercato del lavoro, formazione e impegno per creare posizioni professionali caratterizzate da competenze specifiche. In un simile contesto, imprese e sindacati potrebbero concordare le modalità di riduzione dell’orario più in linea con le esigenze che abbiamo indicato in premessa: una settimana lavorativa spalmata su quattro giorni da nove ore ciascuno, come è orientata a fare Intesa Sanpaolo, o un semplice “venerdì breve” da maggio a settembre, come Lavazza ha preferito. Una soluzione equilibrata potrebbe consistere in una settimana da quattro giorni lavorativi, caratterizzati da turni più lunghi sostenuti da dipendenti adeguatamente formati, gradualmente inseriti nell’organizzazione e in numero adeguato.

A queste condizioni, i rischi connaturati alla proposta di settimana corta, sostenuta in Italia non solo dalla Cisl ma anche dalla Cgil, sarebbero scongiurati. Mi riferisco innanzitutto al pericolo di un rafforzamento dell’emigrazione dal Sud, dove i livelli occupazionali sono molto più bassi, al Nord, dove la concentrazione del lavoro è invece storicamente più consistente. Altrettanto forte è il rischio che politiche poco lungimiranti depotenzino i benefici che la settimana corta, come dimostrato anche dal dossier di Autonomy, è in grado di apportare: più benessere per i lavoratori, imprese più produttive e più capaci di attrarre personale. I pericoli, dunque, non mancano ma vanno opportunamente previsti e scongiurati, anche perché sostanzialmente inferiori ai benefici che una simile rivoluzione del mercato del lavoro sarebbe in grado di garantire: la politica agirà di conseguenza?

Raffaele Tovino è dg di Anap

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