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Una fabbrica non vale una banca

Nei giorni scorsi Monte dei Paschi di Siena ha annunciato un utile nel 2023 sopra i due miliardi di euro e il ritorno del dividendo per gli azionisti dopo tredici anni. L’intervento pubblico di salvataggio è costato allo Stato 6 miliardi di euro, un buco che difficilmente potrà essere colmato ma che ha impedito un fallimento che avrebbe generato un crollo a catena con effetti su tutto il sistema bancario ed economico del Paese e non solo. Qualcosa che, per intendersi, ricorda il fallimento della Lehmann Brothers del 2008.

In attesa che si trovi il modo per non fare pesare sulla collettività le colpe delle banche che sono e dovrebbero rimanere private e competere sul mercato, tema su cui ha fallito anche Barack Obama durante la presidenza degli Stati Uniti, il salvataggio continua ad essere l’unica strada percorribile per attenuare i danni e difendere l’interesse pubblico, compreso quello dei più deboli. Oggi Mps rivede la luce e lo Stato punta a venderne sul mercato un altro 8-10 per cento che andrà ad aggiungersi al 25 già collocato. Torna ad assumere e c’è chi, a partire dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, vede le basi per un terzo polo bancario italiano. I governi che si sono trovati a gestire il dossier hanno dimostrato coraggio, facendo scelte politiche ed economiche controproducenti in termini di consenso.

Se per il sistema bancario la capacità di reazione è stata rapida, facendo cadere il tabù liberista che non vorrebbe mai la presenza pubblica sul mercato, non si può dire lo stesso per l’industria piccola, media e grande. Oggi l’Italia paga l’immaturità nel trasformare in punto di forza quelli che sono i cambiamenti strutturali che sta vivendo l’economia globale.

Due esempi su tutti: Stellantis e l’ex Ilva. Nel primo caso, per anni, si è lasciato che un patrimonio industriale costruito nei decenni dalla famiglia Agnelli, anche grazie a generose risorse della collettività, andasse via. Neanche l’ingresso dello Stato francese ha destato dal torpore chi avrebbe dovuto difendere i posti di lavoro a Melfi, Pomigliano, Mirafiori e Cassino (30mila in meno nell’ultimo decennio) e favorire la crescita di nuove occasioni di sviluppo.

Oggi si prova a correre ai ripari cercando di (ri)portare anche l’Italia nella compagine aziendale, con una tempistica che rischia di costare tanto e con esito dubbio, visto che gran parte delle strategie del gruppo sono già nero su bianco (un po’ come chiudere il recinto quando i buoi sono già scappati). L’intervento pubblico, realizzato per tempo, avrebbe senz’altro avuto un effetto positivo sulle scelte di una impresa produttiva come Stellantis ma nessuno ci ha pensato. Erano tutti concentrati sull’ex Ilva di Taranto, una fabbrica che produce acciaio con una tecnologia ottocentesca e che oggi conta 3,1 miliardi di debiti solo verso le banche (come riporta la stessa Acciaierie d’Italia nel ricorso recentemente presentato al Tribunale di Milano contro la procedura di amministrazione straordinaria).

È forse quest’ultimo aspetto ad aver “ingessato” per decenni qualsiasi iniziativa politica seria di riprogrammazione industriale, o semplicemente funzionale, del sito di Taranto? Quel che è certo è che i miliardi pubblici spesi dal 2012 a oggi, da quando è intervenuta la magistratura, non hanno cambiato la situazione. Si è tenuto in piedi un “fantoccio” di quel che è stata l’industria italiana dell’acciaio tra gli anni ’60 e ’90 che non può ripagare in alcun modo i danni ambientali e sanitari causati e che cade letteralmente a pezzi. Il tutto per salvare i conti delle banche e far credere a 10mila lavoratori che il loro impegno fosse utile alla comunità (l’ultimo ennesimo inganno). Era troppo impegnativo immaginare una fabbrica eventualmente più piccola, che non bruciasse carbone, e l’impiego del surplus di forza lavoro, opportunamente formata, nelle bonifiche, utilizzando le risorse europee così come già fatto in altri Paesi (a cominciare da Bilbao).

Quel coraggio di andare controcorrente e di perdere voti pur di dare un indirizzo politico, è svanito quando si è trattato di pianificare una politica industriale che guardasse al 2050 e non alla prossima scadenza elettorale. Il tutto mentre negli ultimi dieci anni sono stati bruciati miliardi di euro in cassa integrazione, senza aggiungere nulla alla formazione degli operai. Lo Stato nell’economia spesso finisce per socializzare le perdite. Nonostante questo, però, può avere la forza dirompente per cambiare la storia salvando le storie industriali e la vita delle persone. In poche parole se stesso. In Italia accade sempre più raramente come insegnano l’ex Ilva e quella che una volta era la Fiat. Una lezione che dentro e fuori le fabbriche non è stata (volutamente?) insegnata e che qualcuno vorrebbe valesse solo per le banche.

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