A un occhio poco attento, i numeri del decreto appena approvato dal Consiglio dei ministri potrebbero sembrare straordinari: 1.057 assunzioni nei Ministeri, di cui 300 al Viminale, e altre 1.968 nelle forze dell’ordine, senza dimenticare la possibilità di stabilizzare i precari che negli ultimi otto anni abbiano lavorato per almeno 36 mesi non consecutivi al servizio di Comuni, Città metropolitane, Province e Regioni.
Il tutto per colmare quelle carenze di organico, più volte sottolineate dalla Svimez con specifico riferimento agli enti locali, che stanno rallentando l’attuazione del Pnrr e hanno portato il ministro Raffaele Fitto a giudicare addirittura “matematica” la mancata realizzazione di alcuni progetti contenuti nel Piano entro il 2026. A parte la perplessità relativa al Ministero della Giustizia, inspiegabilmente escluso dal programma di reclutamento straordinario di personale appena varato dal governo Meloni, c’è un aspetto che merita di essere sottolineato. Il decreto risponde all’esigenza di “rimpolpare” a stretto giro le pubbliche amministrazioni direttamente coinvolte nell’attuazione del Pnrr, ma non è certo una misura strutturale capace di risolvere una volta per tutte l’atavico problema della carenza di organico negli enti pubblici. Ed è proprio sulla necessità di un grande programma di rafforzamento della pubblica amministrazione, soprattutto al Sud, che Palazzo Chigi dovrebbe ragionare e intervenire in modo serio. L’Italia, infatti, è reduce da un decennio drammatico in cui il blocco del turnover ha ridotto il personale in servizio negli enti pubblici da 3,5 a 3,2 milioni (dunque di ben 300mila unità), facendo peraltro salire l’età media dei dipendenti a 50 anni. La Puglia non è estranea a questa tendenza, se si pensa che a Bari e dintorni mancano all’appello circa 10mila dipendenti pubblici, come il segretario della Cgil Fp locale Domenico Ficco ha opportunamente ricordato sulle pagine de “L’Edicola del Sud”: una voragine che il decreto appena licenziato dal Consiglio dei ministri non riuscirà mai a colmare. Soltanto nel 2021, in Italia, si è ripreso ad assumere, mentre nel 2022 gli ingressi nella pubblica amministrazione sono stati circa 170mila, di cui 156mila volti a sostituire il personale pensionato. Per il 2023, stando a quanto annunciato dal ministro Paolo Zangrillo, sono in programma altre 150mila assunzioni e così si andrà avanti anno fino al 2026. Certo, gli sforzi compiuti dal governo Meloni per superare l’impasse del Pnrr e rafforzare la pubblica amministrazione lasciano ben sperare. Ma bisogna fare molto di più per far sì che il Paese si dimostri all’altezza delle sfide epocali dalle quali è atteso nei prossimi anni. È indispensabile, innanzitutto, semplificare e sburocratizzare le procedure di reclutamento all’interno della pubblica amministrazione. La pandemia ha di fatto costretto l’Italia a dematerializzare tanti passaggi di quell’iter, puntando su un’ampia digitalizzazione di documenti e step procedimentali. Non ci si può né ci si deve accontentare, ma piuttosto bisogna impegnarsi per rendere le assunzioni nel settore pubblico sempre più “smart”, seppur nel doveroso rispetto dei criteri di trasparenza. Altrettanto indispensabile è rendere il lavoro nella pubblica amministrazione maggiormente attrattivo. Il che non vuol dire soltanto retribuire in modo dignitoso i dipendenti, ma far comprendere loro che nel settore pubblico possono crescere a livello personale, da un lato, e, dall’altro, contribuire in maniera decisiva allo sviluppo della comunità nazionale. Quindi non si tratta semplicemente di rispondere alla “emergenza” rappresentata dal Pnrr, ma di attrezzare l’Italia in vista di una lunga serie di appuntamenti di cruciale importanza. Anche da questo si misureranno la credibilità e la visione politica dell’attuale classe politica.
Raffaele Tovino è dg di Anap
Bentornato,
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