Un autunno politico molto caldo

L’autunno meteorologico che dovrebbe portare (si spera) finalmente brezze fresche, si preannuncia invece caldissimo sul piano politico. Entro il 20 settembre il governo dovrà presentare alla Commissione europea il primo Piano strutturale di bilancio, il nuovo strumento introdotto dalla recente riforma delle regole del Patto di stabilità e crescita, che definirà la finanza pubblica italiana nei prossimi cinque anni.

L’Italia quindi rientra, dopo la pandemia, sotto la tutela dell’Unione che ha già avviato, nel giugno scorso, una procedura per deficit eccessivo (il rapporto deficit/Pil si è attestato nel 2023 al 7,4% e nel 2024 lo stima al 4,4%, ben oltre il limite del 3%, confermato come un dogma). Sarà quindi necessario, alla luce delle stime effettuate dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio, procedere ad un aggiustamento di 10-12 miliardi all’anno per poter uscire dalla procedura nel prossimo triennio e convergere sul piano di rientro definito da Bruxelles.

Le nuove regole definiscono anche un nuovo aggregato di riferimento: la spesa primaria netta, ovvero la spesa pubblica nominale al netto della spesa per interessi, della spesa ciclica per la disoccupazione, delle misure discrezionali sulle entrate e della spesa relativa ai programmi dell’Unione.

Rispetto al saldo strutturale, prevista dalla normative precedente, il nuovo parametro dovrebbe favorire le politiche anticicliche e dovrebbe garantire un certo margine di discrezionalità alla politica fiscale adottata dagli Stati membri, in quanto il processo di rientro dal debito eccessivo (che per l’Italia si attesta al 137,3% del Pil) sarà valutato non più annualmente, ma su un periodo di quattro anni, estendibile a sette, nel caso vi sia un impegno del paese ad attuare riforme strutturali o piani di investimento. Pur avendo abolito la regola che stabiliva un tasso di riduzione di 1/20 all’anno, considerata troppo stringente, il nuovo accordo stabilisce che il rapporto debito/Pil sia ridotto in media di almeno l’1% all’anno fino a quando rimane sopra al 90%. Inoltre viene introdotto il cosiddetto margine comune di resilienza, secondo il quale i paesi con debito superiore al 90% del Pil dovranno dovranno mantenere il deficit ben al di sotto del livello del 3% del Pil (il saldo primario deve attestarsi al livello virtuoso dell’1,5% del Pil).

Questo allo scopo di poter avere un margine discrezionale, senza superare il sacro vincolo del 3%, nei periodi di congiuntura negativa, quando aumentano le spese e si riducono le entrate. In sostanza tirare la cinghia quando l’economia vola per poter poi respirare quando la recessione ci strangolerà. Vedremo come il governo italiano attuerà le sue scelte in questo quadro di nuove regole, che certo hanno deluso molti dei suoi sostenitori che quando erano all’opposizione vagheggiavano propositi molti diversi e non certo pensavano di fare la fine di taciturni e obbedienti esecutori degli ordini di Bruxelles. Nell’ultimo consiglio dei ministri l’appello alla disciplina è stato molto chiaro.

Si dovrà necessariamente rivedere ciò che è stato stabilito nella precedente legge di bilancio (taglio del cuneo fiscale, Zes per il Mezzogiorno, riduzione del canone Rai, detassazione del welfare aziendale e dei premi di produttività, interventi di sostegno agli indigenti, l’azzeramento dei contributi previdenziali a carico di lavoratrici a tempo indeterminato con due figli): a politiche invariate, infatti, secondo le stime dell’Ufficio Parlamentare di Biancio, il deficit aumenterebbe al 4,6% nel 2025. Entro i vincoli imposti dal Piano Strutturale di Bilancio, il governo dovrà trovare risorse per finanziare i due pilastri della sua politica fiscale: il taglio del cuneo fiscale e il sistema di incentivi previsto dalla ZES unica per il Mezzogiorno, che costano rispettivamente 10 miliardi e 1,8 miliardi di euro.

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