Viviamo immersi in una narrazione che tradisce la realtà. È la narrazione delle immagini dall’alto, dei video con inquadrature perfette riprese dai droni, dove tutto “sembra bello” perché è distante, sorvolato, spersonalizzato. Una bellezza che illude, che anestetizza, che consola. Ma è solo superficie. È la messa in scena di un mondo che si nutre di apparenze mentre rimuove il conflitto, la fatica, la responsabilità. Questa estetica dell’alto si combina con un’altra estetica più viscerale: quella del selfie. Il volto in primo piano, il sé che si esibisce, che cerca validazione, che si consuma nella continua esposizione. Siamo nella piena esplosione del narcisismo culturale: l’altro non è più compagno di strada, ma spettatore o specchio. L’identità si costruisce nel riflesso, non nella relazione.
Come sosteneva Christopher Lasch già negli anni ’70, nella società narcisistica l’individuo è spinto a vivere solo nell’immediato, ad anestetizzare l’angoscia con stimoli continui, a evitare ogni profondità. Oggi questo si è radicalizzato: viviamo in un eterno presente fatto di notifiche, scroll, gratificazioni rapide. È il principio del piacere, come Freud lo chiamava, che domina: evitare il dolore, cercare il sollievo, fuggire dalla complessità. Ma il principio del piacere, da solo, non ci salva. Non costruisce relazioni stabili. Non dà senso. Non genera futuro. Il tempo dell’istante va superato. Abbiamo bisogno di una navigazione più lunga, più serena, più consapevole.
La nostra società sembra aver smarrito la funzione simbolica, quella che permette di dare senso all’esperienza, di tollerare l’ambivalenza, di trasformare il dolore. E così, di fronte alla crisi climatica, alla frammentazione sociale, all’ansia diffusa, restiamo paralizzati. Sperare non basta. Lo ricordava Spinoza: la speranza è una passione triste, perché ci trattiene nell’attesa, perché nasce da una mancanza. Ma noi non possiamo più restare nella sospensione. Dobbiamo ritrovare la nostra potenza di agire — non nel senso prometeico e distruttivo della Modernità, ma in una forma nuova, capace di prendersi cura, di costruire legami, di sostenere la vita nella sua fragilità.
È tempo di un agire collettivo della responsabilità. Una nuova forma di maturità culturale. Dove il futuro non è qualcosa da attendere, ma qualcosa che nasce nel qui e ora, attraverso pratiche concrete, alleanze quotidiane, piccoli gesti di trasformazione. Serve un nuovo immaginario condiviso, dove la bellezza non è perfezione dall’alto, ma verità incarnata. Dove il piacere non è consumo, ma relazione. Dove la libertà non è solitudine, ma scelta di stare insieme nel tempo lungo della cura. Solo così possiamo tornare a vedere la realtà — e a viverla davvero. Per decenni si è parlato di “tempo del narcisismo” per descrivere una condizione diffusa: l’individuo ripiegato su di sé, alla ricerca continua di riconoscimento, bellezza, successo. La società postmoderna ha rotto le grandi appartenenze collettive, e il soggetto ha reagito costruendo un sé idealizzato, costantemente esposto e performante. Oggi, però, qualcosa si incrina. Il narcisismo non basta più. L’io grandioso, così curato, messo in scena, celebrato, è diventato fragile. L’identità scivola, la soggettività vacilla. Viviamo — forse — nel tempo del post-narcisismo: non più un io che si esalta, ma un io che si dissolve, si affatica, si perde. La performance non dà più piacere, ma ansia. L’immagine non protegge più, ma isola. Il riconoscimento non nutre, ma crea dipendenza. Non siamo più narcisi allo specchio, ma ombre che scorrono in cerca di senso. In questo scenario, la domanda diventa urgente: come può la persona vivere e funzionare oggi?
Forse la risposta non sta in nuove tecniche di adattamento, ma in una diversa disposizione interiore. Dobbiamo provare a passare alla prestazione alla presenza. È tempo di rallentare. Sostare. Ritrovare il valore dell’esserci, senza dover dimostrare nulla. Occorre un passaggio antropologico dall’io all’altro. Non per perdersi nella massa, ma per ritrovare sé stessi nella relazione, nella cura, nella reciprocità. L’atto umano più profondo è accogliere la propria fragilità. Non più combattere il limite, ma abitarlo. La ferita non è solo mancanza: può diventare apertura. Coltivare l’autenticità. Non come esibizione di sé, ma come fedeltà silenziosa a ciò che davvero conta. Ritornare al corpo, al tempo, alla terra. In un mondo che spinge all’illimitato, il limite diventa un atto di libertà. Essere presenti, anche nella fatica, è il primo gesto politico e umano. Siamo nel tempo in cui il narcisismo si è logorato, e forse questo può aprire uno spazio nuovo: meno egocentrico, più relazionale, meno performante, più vitale. Un tempo da abitare non con maschere, ma con sguardi, mani, silenzi veri.
Bentornato,
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