Il responso sul futuro dell’ex Ilva si conoscerà oggi. Allo scoccare della mezzanotte sono state aperte le buste contenenti le manifestazioni di interesse per gli asset dell’acciaieria. Si apre una fase diversa per una delle più grandi industrie del sud d’Italia, che ha seminato morte e dato lavoro, che ha sfregiato la città dei due mari e anche strappato dalla povertà centinaia di famiglie. Il punto è capire se, mentre i sindacati punteranno a salvaguardare i posti di lavoro (così come è giusto che sia), si sarà attenti (con la stessa tenacia) alla decarbonizzazione, prevista nel bando. Imprescindibile, perché accanto alla forza della classe operaia è cresciuta la consapevolezza di ciò che inquina, avvelena, semina cancro. Sia chiaro che l’ex Ilva non è solo Taranto, l’ex Ilva è l’Italia, ne sintetizza la storia: da un lato il progetto e la realizzazione di una fabbrica un tempo fiore all’occhiello della produzione industriale del Paese, dall’altro i veleni (illecitamente?) dispersi nell’aria e nell’acqua. Da un lato un rilancio, un nuovo corso per produrre ancora, dall’altro il processo “Ambiente Svenduto” annullato e da rifare perché i giudici tarantini, che hanno emesso la sentenza di primo grado, sono da considerarsi “parti offese” del presunto disastro ambientale, da qui il trasferimento a Potenza. Come se la Basilicata (e tutte le altre regioni d’Italia) non conoscesse l’inferno di chi vive accanto a un’industria che non rispetta gli standard di sicurezza.
Come se ci fosse una parte d’Italia che non conoscesse che esiste chi dirige fabbriche e per risparmiare non usa tutte le misure per disinnescare i danni dei metalli pesanti, delle diossine, degli idrocarburi. Eccola l’Italia che da un lato progetta, sogna, produce dall’altra si perde, inciampa, cede alle corruttele. In mezzo c’è chi per un piatto di lenticchie (o per un grande business) preferisce non vedere. E l’Italia (non solo Taranto) è attraversata da storie simili. Sono tanti i grandi colossi industriali portati alla sbarra, ma quasi tutti i processi sono finiti con prescrizioni o assoluzioni. In Lombardia è il caso dell’azienda chimica Caffaro che è considerata tra le maggiori fonti di inquinamento, ma il processo ha visto tutti assolti. A Pescara c’è stata la discarica di veleni più grande d’Europa, esattamente 17 anni fa si scoprì che, oltre 185 mila metri cubi di inquinanti come cloroformio, tetracloruro di carbonio, metalli pesanti erano stati sversati in mare. Il Consiglio di Stato nel 2020 ordinò la bonifica. Solo a gennaio però il ministero dell’Ambiente ha firmato il contratto per l’intervento da 42 milioni. In Calabria, a Crotone, c’era la Pertusola, una sentenza (nel 2012) certificò il disastro ambientale. L’Eni fu condannata a pagare 56 milioni. La bonifica non è mai partita. Non si sa dove smaltire i rifiuti. Sul fronte penale, nel 2013 la Cassazione confermò la decisione del gup e mise la parola fine all’inchiesta giudiziaria: 45 gli indagati tutti assolti. Un milione di tonnellate di rifiuti sono ancora lì. In passato chi gestiva la Pertusola si mise a sperimentare il cubilot, una sorta di mattone che veniva ricavato dagli scarti della fabbrica, servì a costruire scuole e addirittura l’aeroporto e la questura. Poi si scoprì che era tossico. I bimbi a Crotone si ammalano ancora, dopo 25 anni dalla chiusura della Pertusola, come i loro nonni che lavoravano in fabbrica. Non deve accadere a Taranto. È per questo che l’ex Ilva è l’Italia, è la storia di tutti noi. Chi arriverà qui per rilevarla non dovrà solo farsi carico dei posti di lavoro, ma anche, come prevede il bando, della decarbonizzazione, come un gesto d’amore verso il futuro. Perché una fabbrica non è una iattura, se si rispettano le leggi. L’ex Ilva è il nostro simbolo, è l’Italia che ha bisogno di pensare che può essere laboriosa e capace di una classe imprenditoriale onesta che abbia una visione verso il futuro, di crescita, di desiderio di lasciare nella memoria non solo veleni e morti.