Forse è vero, come scrive Lino Patruno sulla Gazzetta del Mezzogiorno, che l’intelligenza artificiale ci regalerà più tempo e accrescerà il desiderio di scoprire realtà come il Sud. In attesa che la transizione digitale produca simili risvolti positivi, però, è il caso di affrontare un’altra questione: quella della necessità di un nuovo patto sociale, in cui i lavoratori possano esercitare la propria responsabilità e autonomia, e di diverse forme contrattuali, che tutelino quegli stessi lavoratori e prevengano le disuguaglianze.
Infatti, come il sociologo Nicolò Boggian e il ricercatore Massimo De Minicis hanno opportunamente osservato, l’intelligenza artificiale sta generando migliaia di forme ibride di lavoro che sfuggono alle categorie tradizionali. Al giorno d’oggi il lavoratore non è più un mero esecutore di ordini, ma un soggetto attivo e autonomo nelle modalità operative sebbene vincolato al raggiungimento degli obiettivi fissati da piattaforme, imprese digitali e algoritmi. Le carriere, che un tempo si sviluppavano lungo la linea dell’anzianità, procedono oggi su base progettuale. I manager, più che controllori di tempi e attività, si trasformano in soggetti che definiscono principi generali e obiettivi coerenti, lasciando ai team autonomia nella scelta di strumenti e collaboratori.
All’interno di questo perimetro i team possono comporsi in modo autonomo e scegliere gli strumenti più adatti. E anche i luoghi di lavoro si smaterializzano. Una simile realtà non può essere gestita secondo logiche e categorie tipiche del tradizionale rapporto di lavoro subordinato. Il rischio è che milioni di lavoratori restino esclusi dal paradigma che si sta affermando grazie all’intelligenza artificiale, pagando in termini di diritti e tutele. E questa prospettiva va allontanata in tutti modi, soprattutto in un contesto già caratterizzato da un’ampia riduzione dei meccanismi di protezione dei lavoratori.
Si tratta di ripensare il quadro normativo. Una soluzione potrebbe poggiare sul concetto di “lavoro personale” elaborato nel rapporto Supiot, nel 1999, con l’obiettivo di superare la contrapposizione tra le categorie dell’autonomia e della subordinazione. Quella definizione identifica l’attività svolta in prima persona con impegno diretto e responsabilità individuale, ma senza le caratteristiche dell’imprenditorialità.
A chi svolge un lavoro classificabile come personale va riconosciuto un nucleo di diritti universali (per esempio previdenza, sicurezza e formazione continua) ai quali si aggiungono protezioni aggiuntive definite in base alla maggiore o minore dipendenza, durata e continuità del rapporto di lavoro. Insomma, la transizione digitale impone l’adozione di nuovi modelli contrattuali capaci di coniugare autonomia e stabilità. Qualche esempio? Contratti misti, che sposino le protezioni essenziali del rapporto di lavoro subordinato con l’autonomia operativa indispensabile per favorire l’innovazione. Un’altra soluzione potrebbe essere quella di meccanismi retributivi misti, caratterizzati da una base garantita e una variabile legata agli obiettivi. E c’è chi addirittura parla di welfare mobile, cioè capace di accompagnare il lavoratore nei passaggi tra diverse attività e rapporti di lavoro garantendogli sempre copertura previdenziale, assicurativa e formativa.
Evidentemente, le soluzioni disponibili sono molteplici e ciascuna di esse muove dalla necessità di garantire diritti e uguaglianza dei lavoratori che sono al centro dell’ennesima rivoluzione. Quale sia quella giusta è difficile dirlo, ma certo è che di questo tema bisognerebbe che la politica e le parti sociali discutessero con l’obiettivo di raggiungere un equilibrio. A meno che non vogliano determinare l’esclusione di centinaia di migliaia di persone dal mercato del lavoro e condannare quelle che vi si trovano a un futuro caratterizzato da diritti calpestati e ridotte tutele.