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Tu non puoi capire – Il significato autentico

Oggi l’accesso a internet è diventato più essenziale dell’acqua potabile, i social media hanno assunto il ruolo di piazze virtuali dove chiunque può esprimere il proprio pensiero, spesso senza filtro.

Una rivoluzione comunicativa che ha portato con sé una iperproduzione di contenuti dove le parole, specialmente quelle legate ai concetti di “inclusione”, “diversità” e “empowerment”, si moltiplicano a ritmi vertiginosi. Ma in questo diluvio di termini, quanto spazio rimane per il significato autentico?

Un tempo, per avere una voce nella società, bisognava scalare gerarchie, guadagnarsi un titolo o, nei casi più disperati, fare qualcosa di veramente significativo. Oggi basta un account e una connessione Wi-Fi. E non è necessario essere esperti di ciò di cui si parla. Basta apparire convincenti, o perlomeno, usare le parole giuste, quelle che risuonano nell’eco-camera virtuale dei nostri feed.

Questo ha creato un paradosso interessante: mentre più persone parlano, meno ascoltiamo. Ogni post è un monologo lanciato nell’etere digitale, sperando di catturare qualche “like” prima di scomparire nel nulla del web. E in questo scenario, termini come “inclusione” e “diversità” sono diventati quasi dei mantra, ripetuti tanto frequentemente da svuotarsi di ogni concreto significato.

Una volta i social erano territori inesplorati, selvaggi e liberi, dove potevi trovare di tutto: dalla ricetta della nonna all’ultimo pettegolezzo di paese. Oggi, invece, sembrano più un convegno di neo-linguisti impegnati a inventarsi parole nuove. E non parliamo di Shakespeare, ma di quella persona che fino a ieri non sapeva cosa fosse un pronome e oggi si erge a paladino dell’inclusività linguistica.

È chiaro che la comunicazione è fondamentale. Ma quando l’importanza di comunicare si trasforma in un obbligo di apparire sempre politically correct, il messaggio rischia di perdere autenticità. Diventa un vestito troppo stretto che tutti cercano di indossare, anche quando non si adatta alla loro taglia.

Parliamo di inclusione, ma spesso ci fermiamo alla superficie. È facile postare un hashtag, molto meno impegnarsi in azioni concrete. La diversità viene celebrata, ma solo quando è esteticamente gradevole o quando serve a rafforzare un brand. In questo contesto, “inclusione” diventa una parola da sfilata: tutti vogliono averla in passerella, ma pochi sanno cosa comporti realmente dietro le quinte.

E non si tratta solo di aziende che cercano di monetizzare la diversità. Anche nel dialogo quotidiano, nei gruppi, nei forum, l’inclusione è spesso ridotta a una mera etichetta, un qualcosa da esibire per dimostrare di essere sulla “parte giusta” della storia, senza un vero impegno per comprendere o migliorare le realtà delle persone coinvolte.

Il linguaggio evolve, questo è indubbio. Nuove parole emergono, vecchie parole acquisiscono nuovi significati. Ma c’è una differenza tra evoluzione linguistica e inflazione lessicale. Nel mondo dei social, alcuni termini vengono talmente abusati da perdere ogni peso specifico. Diventano, per così dire, valute inflazionate in una economia del discorso dove il valore reale è spesso molto inferiore al valore nominale.

Questo abuso porta con sé un altro problema: la polarizzazione. Quando parole come “inclusione” diventano bandiere di fazioni opposte, il dialogo costruttivo diventa un campo minato. Ogni discussione degenera in una battaglia di retorica in cui vincere è più importante di comprendere.

Un esempio lampante? Le campagne pubblicitarie che utilizzano la diversità come trampolino di marketing. Qui la diversità non è vissuta, ma esposta come un trofeo. “Guardate quanto siamo inclusivi!” sembrano dire, mentre in sottofondo si intuisce il “ma solo perché ora va di moda”.

La comunicazione nell’Era del “menefreghismo virtuale”

In un mondo ideale, la comunicazione dovrebbe avvicinare le persone. Ma nei social, sembra fare l’opposto. Ci nascondiamo dietro schermi, usiamo parole come scudi, e spesso dimentichiamo che dall’altra parte c’è un altro essere umano. Forse è il momento di ricordare che comunicare non significa solo parlare o scrivere, ma anche ascoltare.

In conclusione, mentre i social media continuano a offrirci piattaforme ineguagliabili per la condivisione di idee, forse è giunto il momento di fare una pausa e riflettere su come stiamo utilizzando queste risorse. Ci chiediamo: stiamo comunicando per connetterci veramente con gli altri, o stiamo solo compilando un elenco di parole di moda per rimanere rilevanti online?

Forse è tempo di apprezzare di nuovo il valore del silenzio, di riflettere prima di parlare e di scegliere le parole con cura, non per il loro potere di trend, ma per il loro impatto reale. Dopotutto, tra un aggiornamento di stato e l’altro, può essere rivoluzionario scoprire che, talvolta, il silenzio non solo è d’oro, ma può anche essere incredibilmente eloquente.

Comunicare dovrebbe essere un ponte, non un muro.

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