Ogni famiglia italiana paga puntualmente il canone RAI. Non si tratta di una scelta: viene prelevato direttamente dalla bolletta della luce. Una tassa obbligatoria, giustificata dall’esigenza di finanziare un servizio pubblico che, in teoria, dovrebbe offrire qualità, pluralismo e indipendenza. La realtà che arriva sullo schermo, però, appare spesso ben diversa.
Negli ultimi anni, la RAI sembra sempre più incerta sulla propria identità. Da un lato, propone programmi di indubbio valore, con fiction, documentari e approfondimenti culturali che nulla hanno da invidiare ad altri grandi broadcaster europei. Dall’altro, però, si piega alle logiche dell’audience, inseguendo format urlati e talk show ridotti a risse verbali. Si rincorrono modelli già ampiamente sfruttati da televisioni private: programmi come “Il Grande Fratello”, “Uomini e Donne”, “Temptation Island”, in cui la narrazione ruota attorno a tradimenti, pettegolezzi e comportamenti insulsi, spesso offensivi della dignità e sensibilità del telespettatore medio. Un’ossessione per il sensazionalismo, che mal si concilia con la missione di un servizio pubblico.
Poi c’è l’informazione. Il giornalismo della RAI, pur ricco di professionalità e competenze, è troppo spesso percepito come “servente”: più attento a non disturbare il manovratore che a rappresentare la pluralità dei cittadini. La lottizzazione delle testate e delle direzioni continua a pesare come una zavorra. I telegiornali finiscono per somigliarsi tutti: più attenti alla messa in scena che ai contenuti, più inclini alla narrazione rassicurante che al coraggio di porre domande scomode. Non è raro che la RAI sembri assolvere più al ruolo di megafono del potere politico che a quello di strumento di controllo e di vigilanza per i cittadini.
La politica, del resto, non condiziona solo l’informazione, ma spesso influenza anche le scelte editoriali e artistiche: affidamenti di conduzioni discutibili, volti premiati più per vicinanze o appartenenze che per meriti professionali, programmi piazzati in prima serata con evidente intento di compiacere l’audience o il decisore politico di turno. Una logica che finisce col mortificare la creatività, il merito e la capacità innovativa dei tanti professionisti che pure lavorano con dedizione nell’azienda.
È qui che si annida il paradosso. Il cittadino paga un canone ineludibile e si ritrova spettatore di trasmissioni che ricalcano modelli commerciali già offerti da altri canali gratuiti, con la differenza che, in questo caso, il prezzo è già stato saldato in anticipo, senza possibilità di scelta. Non è solo una questione economica; è anche una questione di rispetto, perché chiedere ai cittadini di finanziare un’azienda pubblica implica la responsabilità di restituire un prodotto che non sia mera copia del mercato, ma un’alternativa di valore.
Il servizio pubblico dovrebbe essere altro: spazio di libertà, laboratorio culturale, presidio di informazione indipendente, un luogo dove il pluralismo non sia un optional e dove il rispetto per l’intelligenza dello spettatore venga prima delle strategie di “distrazione di massa”. Se la RAI abdica al proprio ruolo, ciò che resta è un ibrido: una televisione che non compete davvero con i privati, ma che non riesce nemmeno a distinguersi da essi.
Essere critici verso la RAI non significa dimenticarne i meriti né sottovalutare i molti professionisti che ancora la onorano con serietà e competenza. Significa piuttosto ricordare che il servizio pubblico non appartiene ai governi di turno, ma ai cittadini, e che il canone, proprio perché obbligatorio, non può essere speso per alimentare la mediocrità, ma deve diventare un investimento per la qualità, la libertà e la dignità dell’informazione.
In fondo, tutto si riduce a una questione di responsabilità. La RAI, come ogni organo di informazione, vive e respira grazie al lavoro dei suoi giornalisti. A loro spetta il compito delicato, e oggi più che mai prezioso, di non cedere a interessi di parte o a mode effimere. Un giornalismo di servizio pubblico deve restare fedele ai principi deontologici che ne sono il fondamento: indipendenza, verità, rispetto per il cittadino.
Ma la responsabilità non ricade solo sui giornalisti. Dirigenti e vertici aziendali hanno il dovere morale di sottrarre la RAI alle logiche della spartizione politica, di liberarla dalla tentazione di inseguire i gusti più bassi del pubblico e di restituirle la dignità che merita. Il servizio pubblico non è un bottino da spartire né un palcoscenico da distribuire ad amici e protetti: è un bene comune.
Se la politica continuerà a trattare la RAI come terreno di conquista, e i suoi dirigenti come strumenti di obbedienza, il rischio non è soltanto quello di impoverire il palinsesto, ma quello ben più grave di indebolire la coscienza critica del Paese. E allora, a chi guida oggi l’azienda e a chi la condiziona dall’esterno, va rivolto un monito chiaro: la RAI non appartiene a voi, ma agli italiani. Non è un favore da concedere, ma un diritto da garantire, un patrimonio da difendere, con orgoglio e con senso di missione. Perché dalla qualità della RAI dipende, in parte non secondaria, la qualità stessa della nostra democrazia.
Bentornato,
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