È ormai evidente che il governo Meloni ha ridotto la grave crisi sociale del Mezzogiorno a una questione di ordine pubblico. Non è la prima volta che questo accade: è più semplice e immediato attuare una politica da stato d’assedio, inasprendo pene e aumentando il controllo poliziesco del territorio, piuttosto che affrontare alla radice i problemi accumulati nel Mezzogiorno dopo decenni di abbandono e malgoverno. Ovviamente la responsabilità non è tutta del governo Meloni, ma condivisa dalle forze politiche che hanno governato negli ultimi trenta anni, ignorando che la sua economia ha una caratteristica dualistica e che il Mezzogiorno ha bisogno di politiche particolari di intervento per poter agganciare la parte più sviluppata del Paese.
Diversi sono i segnali dimostrano che il Mezzogiorno è ormai entrato in una fase di crisi profonda, non più riconducibile a fluttuazioni congiunturali. Innanzitutto è in preda a una grave crisi demografica: negli ultimi venti anni le regioni meridionali hanno perso oltre 673mila abitanti a fronte di un aumento di 2 milioni e 663mila residenti nel Centro-Nord. Dal 2001 il Mezzogiorno ha perso il 2,4% di popolazione, riducendo il suo peso demografico rispetto al totale della popolazione nazionale al 33,6%.
La riduzione della popolazione meridionale residente è dovuta a diversi fattori: l’emigrazione interna verso le regioni del Centro-Nord è stata solo parzialmente compensata dalle immigrazioni internazionali. Ma a destare particolare preoccupazione non sono solo i valori assoluti, ma anche la profonda trasformazione, in senso negativo, delle variabili demografiche.
Nell’ultimo decennio il Mezzogiorno ha perso un milione e 675mila residenti nella fascia tra i 15 e 39 anni, non compensati da una crescita della popolazione adulta oltre i 40 anni. A questo si aggiunge una forte tendenza alla denatalità, conseguenza della diminuzione del numero delle donne in età feconda. Se negli anni Cinquanta la media era di 3,1 figli per donna, nel 2022 siamo al minimo storico di 1,24 figli per donna. Di questo passo, secondo le previsioni Istat, senza politiche di intervento, il Mezzogiorno dovrebbe perdere tra il 2022 e il 2070 circa 6.395.035 dei suoi 19.828.112 residenti, cioè un abitante su tre. Lo spopolamento del Sud è sia un effetto che una causa del suo ristagno strutturale, alleviato in certi periodi da congiuntura positiva, ma che non può essere contrastato se non si applicano politiche di sviluppo adeguate.
Che il Mezzogiorno sia già considerato una terra dove non investire il proprio capitale umano è dimostrato dall’esodo dei cervelli. Tra il 2001 e il 2021 circa 460mila laureati si sono trasferiti dal Mezzogiorno al Centro-Nord (e tra questi circa 130.000 avevano competenze Stem, cioè in science, technology, engineering and mathematics), la quota di emigranti meridionali con elevate competenze (con laurea o diploma superiore) si è quasi quadruplicate: da circa il 9% a oltre il 34%. Secondo Svimez, nel 2023, per la prima volta nella storia delle migrazioni interne italiane, la quota di laureati sul totale degli emigrati meridionali supererà la componente con titoli di studio inferiori.
Il Mezzogiorno è quindi sempre più terra di lavoro precario e povero, come dimostrano i dati. Il peso percentuale dei contratti a termini sul totale, per esempio, è decisamente più elevato al Sud, al 22,9% contro il 14,7% del Centro-Nord. E si resta precari per un tempo più lungo. E se il lavoro c’è, le retribuzioni reali sono decisamente insufficienti a fronteggiare il costo della vita. Rispetto al 2008, nel 2022 le retribuzioni lorde in termini reali sono di tre punti più basse nel Centro-Nord, mentre nel Mezzogiorno lo sono di ben dodici punti. Secondo Svimez, circa un milione di lavoratori nel Mezzogiorno percepisce un salario orario inferiore ai 9 euro, alimentando la componente del lavoro povero. Se questo è il quadro, le politiche finora attuate dal governo Meloni sono assolutamente inadeguate. Si tratta della solita politica di incentivi che seppur è idonea a non aggravare ulteriormente la congiuntura negativa, non affronta alla radice la condizione di crisi demografica e sociale del Mezzogiorno.
Da quanto è emerso, la manovra in discussione prevede lo stanziamento di un un miliardo e 800 milioni di risorse destinate al Mezzogiorno: sarà prorogato il credito d’imposta sia per le imprese meridionali che acquistano beni strumentali nuovi, sia per gli investimenti in ricerca e sviluppo, sia per la Zes (allargata a tutto il Mezzogiorno); sarà prorogato anche per il prossimo anno, il bonus fiscale per le spese di installazione e messa in funzione di impianti di compostaggio presso i centri agroalimentari del Sud e sarà prorogata, con il consenso della Commissione Europea, la decontribuzione a vantaggio delle imprese che assumono donne e giovani di età inferiore a 36 anni (con un aumento del budget di 5,7 milioni di euro). Tutto qui. Ed è ben poca cosa, rispetto alla gravità della crisi meridionale: il Mezzogiorno è di fatto scomparso dall’agenda delle politiche economiche di questo governo, per conquistare il primo posto nella politica di sicurezza.
Rosario Patalano – Economista