Forse non ci pagheranno le pensioni, come qualcuno ha sostenuto, ma i migranti potrebbero contribuire in modo determinante al miglioramento dei conti.
Sul punto il governo Meloni è stato molto chiaro e, all’interno del Def, ha chiarito che a un aumento dell’immigrazione regolare potrebbe conseguire un progressivo abbattimento del debito pubblico. Peccato che su questo tema strategico, al netto del decreto Flussi che ha visto esaurirsi in poco più di un’ora tutti i posti a disposizione di chi puntava a entrare in Italia, le aperture di Palazzo Chigi non siano state seguite da altrettante misure concrete. Partiamo dai numeri. Nel Def il governo Meloni spiega che l’aumento dell’immigrazione netta nella misura del 33% potrebbe determinare una diminuzione del debito pubblico di oltre 20 punti nell’arco di 50 anni; qualora l’immigrazione netta dovesse invece diminuire del 33%, il debito pubblico subirebbe un’impennata di oltre 60 punti. Insomma, per garantire la tenuta della finanza pubblica bisogna far entrare in Italia un maggior numero di stranieri. La strategia è condivisibile. Peccato, però, che il governo Meloni abbia finora smentito se stesso limitandosi a prevedere un numero di ingressi insufficiente, se si considera l’enorme fabbisogno di forza lavoro delle imprese nazionali. Pensiamo al decreto Flussi: le domande pervenute sono state più di 240mila nella sola giornata del clic day a fronte dei circa 82mila posti “messi in palio” da Palazzo Chigi. Pochini, come hanno opportunamente evidenziato le associazioni rappresentative di agricoltori, colf e badanti. Coldiretti ha sostenuto la necessità di almeno 100mila lavoratori da destinare alle campagne, soprattutto in regioni del Sud come la Puglia che nell’agricoltura vedono un asset strategico di sviluppo; Assindatcolf ha chiarito come, per soddisfare le esigenze delle famiglie, sia necessario programmare l’ingresso in Italia di circa 68mila colf e badanti tra 2023 e 2025. Aver incrementato le quote di ingresso dalle 69.700 del 2021 alle 82.705 del 2022, dunque, non può bastare. Le buone intenzioni esplicitate dal governo Meloni nel Def – senza dimenticare la precedente promessa dell’ingresso di 500mila migranti regolari nell’arco di due anni – si scontrano con la mancanza di almeno un secondo decreto Flussi. E poi ci sono le dichiarazioni di due ministri direttamente coinvolti nella vicenda, cioè di Francesco Lollobrigida, titolare dell’Agricoltura che ha addirittura messo in guardia l’opinione pubblica dal pericolo di una fantomatica “sostituzione etnica”, e di Marina Calderone, titolare del Lavoro, che ha parlato della necessità di favorire l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro “non legato solo al tema dell’immigrazione”. E Giorgia Meloni? La premier ha più volte manifestato, anche negli ultimi tempi, la volontà di spingere sull’occupazione femminile e sulle politiche a sostegno della natalità prima di azionare la leva dell’immigrazione regolare. Le contraddizioni, dunque, sono evidenti ed è bene che il governo ne esca al più presto: in ballo c’è non soltanto la tenuta dei conti pubblici, ma anche la credibilità delle politiche italiane in materia di finanza, lavoro e immigrazione. Un decreto Flussi bis sarebbe un segnale incoraggiante.
Raffaele Tovino è dg di Anpal
Bentornato,
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