Sud, le detrazioni non bastano: servono investimenti pubblici

Nonostante l’ottimismo che caratterizza alcune analisi sul Mezzogiorno, come quella proposta dal Forum Verso Sud organizzato nel maggio corso dal lombardo Studio Ambrosetti, il divario tra Nord e Sud non accenna a ridursi. Secondo gli ultimi dati disponibili, relativi al 2022, il pil pro-capite a prezzi correnti delle regioni del Nord-Ovest è pari a 40.900 euro ed è circa il doppio di quello del Mezzogiorno (21.700 euro). Il pil per abitante di Milano è di 60mila euro, molto distante da quello delle province siciliane, sarde e calabresi che non supera i 17mila euro. Il rapporto tra il pil per abitante del Mezzogiorno e quello del Centro-Nord, che all’inizio degli anni Ottanta si attestava al 60%, alla vigilia della pandemia è precipitato al 55. Un divario regionale di queste proporzioni e di cronica persistenza non è presente in nessun Paese sviluppato, e questa caratteristica definisce l’economia italiana come dualistica: una parte del Paese non riesce ad agganciare i ritmi di sviluppo della parte più avanzata. Per il Mezzogiorno non vale la legge della convergenza, sostenuta da economisti liberisti, secondo la quale le regioni più arretrate dovrebbero crescere più rapidamente di quelle avanzate, avvantaggiandosi di lavoro disponibile e di costo del lavoro più contenuto, fattori che renderebbero più profittevoli gli investimenti. Una legge che ha funzionato per Paesi dell’Est Europa che stanno riducendo il divario con il nucleo più sviluppato.

Paesi come Polonia e Lettonia all’ingresso nell’Unione europea avevano un pil pro capite rispettivamente del 51,2% e 48,3% rispetto alla media europea, dopo appena dieci anni, nel 2016, il dato è migliorato attestandosi al 71,6 e 65,3%. In Calabria è oggi al 55, in Sicilia al 58, in Campania e Puglia al 61. L’applicazione di politiche liberiste che ha condotto all’abolizione dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno e alla fine della cosiddetta economia assistita non ha prodotto, nelle regioni meridionali dell’Italia, gli stessi risultati che hanno ottenuto, con le stesse politiche, altre aree arretrate (si pensi all’Irlanda). L’Italia non ha quindi ancora realizzato la sua unificazione economica e persiste nel cronico paradosso di condizioni di vita radicalmente diverse tra Centro, Nord e Sud. Alcune forze politiche, come la Lega, hanno preso atto di questa divergenza spezzando anche l’unità politica del Paese, attuando con il regionalismo differenziato la riforma costituzionale varata dal centrosinistra nel 2001 per meschini calcoli elettorali.

In questo contesto è illusorio pensare a una nuova stagione di intervento straordinario, con una politica di investimenti pubblici nel Mezzogiorno, l’unico strumento in grado di favorire lo sviluppo quando il libero mercato non riesce a essere un meccanismo virtuoso. E ancora più difficile pensare che questo intervento, seppur vi fosse volontà politica, dovrebbe mobilitare ingenti risorse pubbliche verso Sud. La politica di sviluppo proposta dal governo si affida al tradizionale sistema di incentivi e detrazioni fiscali che possono avere un certo successo in aree del Mezzogiorno che presentano requisiti infrastrutturali e caratteristiche della forza lavoro idonee, ma risulteranno del tutto inefficaci nelle aree più arretrate che possono essere inserite in processi di sviluppo solo da consistenti flussi di investimenti pubblici, non solo limitati alle infrastrutture e alla formazione del capitale umano, ma indirizzati anche al finanziamento diretto delle strutture produttive. Flussi che ovviamente dovrebbero avere consistenza ben più elevata dei fondi attualmente disponibili (Pnrr compreso). Il Mezzogiorno lasciato al libero mercato non potrà evitare processi di spopolamento e l’unica risorsa che potrà sfruttare sarà il suo paesaggio per i flussi turistici. Ma anche nel turismo, che secondo alcuni dovrebbe rappresentare il principale settore di sviluppo del Sud, una seria politica di programmazione.

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