Spesso le inchieste giudiziarie rivelano spaccati inquietanti della società contemporanea. È il caso di quelle sul lavoro irregolare condotte dalla Procura di Milano negli ultimi tempi. Da queste indagini emerge un modello in cui gli operai appaiono come “mere appendici delle macchine”, con queste ultime che detengono “il controllo totale dell’organizzazione e dei ritmi lavorativi”. Scenari che, da una parte, evidenziano l’importanza dell’azione della magistratura e, dall’altra, la necessità che politica e sindacati si facciano seriamente carico della delle protezione dei diritti dei lavoratori.
Le inchieste della Procura meneghina hanno consentito all’erario di recuperare 600 milioni di euro attraverso i risarcimenti fiscali. Ma il dato che più colpisce sono quelle 49mila persone che prima lavoravano nell’ambito di appalti irregolari e che, dopo l’intervento della magistratura, sono stati assunti e stabilizzati. Si tratta, per lo più, di operai impiegati in logistica, trasporti e vigilanza. Un’altra statistica riguarda i salari: in un caso, l’azione delle toghe ha portato a un aumento delle retribuzioni del 30% che non è affatto poco in un Paese che discute inutilmente di salario minimo legale e deve fronteggiare il dramma del lavoro povero.
Le indagini hanno alzato il velo su un modello tripartito in cui i colossi di un settore e i committenti sono schermati da “società filtro” che acquisiscono il contratto di appalto e si avvalgono di “società serbatoio” che reclutano il personale indispensabile perché quegli stessi colossi possano operare sul mercato.
Come ha sottolineato Simone Marcer su “Avvenire”, questo modello spiana la strada alla “transumanza dei lavoratori” da una società all’altra della filiera irregolare e quindi al loro sfruttamento. Non a caso, nel corso delle inchieste, molti operai hanno lamentato trasferimenti punitivi, ore di lavoro non conteggiate e ritmi massacranti. Le inchieste della magistratura, dunque, restituiscono una generale condizione di sofferenza, fatica, salari inadeguati, problemi di sicurezza, scarso investimento in formazione in almeno otto settori e cioè moda, logistica-trasporti, allestimenti fieristici, sicurezza, alimentari, grande distribuzione, costruzioni e pulizie.
Qui lo sfruttamento del personale non costituisce l’eccezione ma la regola, proprio come avviene per l’agricoltura in Puglia e Basilicata. E rappresenta un fenomeno trasversale, visto che riguarda non soltanto le piccole e medie imprese ma anche i colossi, come dimostrano le borse di uno dei più noti marchi italiani che sarebbero state prodotte da operai extra-comunitari illegali al costo di soli 80 euro per poi essere rivendute a 1.800 circa. Ma c’è un elemento che preoccupa quanto il dilagare dello sfruttamento. E cioè la quasi completa latitanza di politica e sindacati. Il numero degli ispettori resta strutturalmente insufficiente, nonostante i recenti interventi del Governo.
Ricordiamo la tragedia di Brandizzo, dove cinque operai furono travolti e uccisi sui binari: in quella zona, dove sono attive circa 235mila imprese, gli ispettori in servizio erano 95, di cui 45 deputati alla tutela della sicurezza nei cantieri, e le autorità potevano effettuare un controllo ogni sei mesi. A ciò si aggiunge il problema dei sindacati confederali che, in passato, hanno firmato contratti non soddisfacenti. Insomma, bene l’azione della magistratura, ma la tutela dei diritti dei lavoratori non può essere delegata alle toghe: politica e sindacati se ne rendano conto.