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Storia di Faust e Mefistofele e la saggezza della moneta contro l’ipercapitalismo

È tormentata da sempre la strada dello sviluppo a Sud. Anche quando arrivano i fondi di sviluppo e coesione di pertinenza dello Stato. È sicuramente una buona notizia per la Puglia, come lo è stata per la Campania e le altre fortunate regioni, l’intesa per l’assegnazione della quota ad esse spettanti.

È grande la fame di risorse a Sud. Soprattutto se si considera l’asfissiante contrazione degli investimenti pubblici nelle regioni meridionali.

D’altra parte, se i grandi eventi vengono programmati al Nord, è ovvio che le poche risorse disponibili devono correre in quella direzione per sistemare strade, impianti, magari distruggere interi boschi per tracciare la pista di bob tra Cortina e Milano.

Sul finire dell’estate ho avuto l’occasione di recarmi in quel di Noci, ai margini della Valle d’Itria, zona che ha ospitato il G7. L’auto che da Monopoli mi conduceva a Noci, scivolava meravigliosamente sul manto stradale. Una novità per gente abituata a fare le gimkane tra buche e strade dissestate.

Il mio amico che era venuto a prendermi, accortosi della mia sorpresa, mi ha spiegato che era l’effetto G7. Per il resto bisogna arrangiarsi.

Provate ad attraversare paesi e città lontani dai riflettori. Andate a vedere la situazione delle scuole. Della sanità, meglio non parlare.

Siamo indietro anni luce rispetto all’Europa. Lo scorso anno sul cammino di Santiago fui fermato dal Covid. Un bel guaio. Il tassista a cui chiesi di accompagnarmi a Sigueiro, in Galizia, sull’itinerario degli inglesi, da dove avrei dovuto raggiungere Santiago, mi accompagnò in un centro medico dove godetti di tutta l’assistenza, al coperto e con massima professionalità e umanità, senza alcun pensiero e un euro di spesa. Sigueiro ha 4mila abitanti e quattro centri medici, attrezzati con studi professionali, medici, infermieri e personale amministrativo. Mi pareva un sogno, a me che sono abituato a peregrinare in patria in cerca di un ambulatorio dove al massimo mi danno una ricetta e la prescrizione per qualche esame a pagamento. Se poi provate ad andare sulle nostre zone industriali per vedere come vanno le cose sul piano dell’occupazione, dello sviluppo, della crescita, avrete un’altra serie di sconforti.

Sono poche le attività economiche e le realtà territoriali che possono dormire sonni tranquilli. Adesso anche le grandi imprese, quelle radicate in Germania, come la gloriosa Bosch, languono. Addirittura chiudono. E non sia mai vi venga in mente di andare a passeggio tra le Zes o la Zes unica che più o meno è la stessa cosa. Uno sconforto. Le Zone economiche speciali, a somiglianza di quanto avvenuto in Cina e in Polonia, dovevano concentrare risorse, investimenti, unire capacità produttiva e logistica, mettere insieme zone industriali e porti, università e ricerca, accumulare agevolazioni sul piano del costo del lavoro, sul piano del fisco, tutto per attrarre i grandi investimenti e finalmente far decollare questo Sud, troppo zavorrato che si spopola senza rimedio. Vi troverete quel che avevate lasciato ieri o l’altro ieri. Cioè niente.

I porti? Meglio non parlarne e accontentarsi di qualche nave crociera. Eppure in Marocco in quindici anni hanno creato Tangerimed: 15 chilometri di banchine, aree retroportuali attrezzate e vastissime. Oggi è il più importante porto del Mediterraneo anche se affaccia sull’oceano Atlantico. Si va verso i dieci milioni di container sbarcati e lavorati. Le grandi imprese mondiali si sono insediate alle sue spalle: assemblano, imballano e spediscono che è una meraviglia. All’Università di Fes dove ragionano se andare in direzione dell’autonomia della Banca centrale o mantenerne il legame virtuoso con lo Stato, sono orgogliosamente consapevoli che il Marocco va lentamente trasformandosi da un Paese di transito dei migranti a un Paese di arrivo. Nel 1960 aveva 12 milioni di abitanti, oggi 40.

E allora? Cos’è che non funziona per le “magnifiche sorti e progressive” della grande Italia, ex quinta o quarta potenza mondiale, ex grande d’Europa, ex faro culturale, ex locomotiva dell’Occidente? Il debito pubblico? Certo. Come si fa, con quel fardello che costa 100 miliardi all’anno, ad andare avanti? È ovvio che quel poco che resta deve andare a Nord, ad alimentare la locomotiva d’Italia. A Sud? Ben venga lo spopolamento: facciamo l’hub energetico. I ragazzi, 80-100mila per anno, una volta formati, con un dispendio di venti miliardi annui per le famiglie e la collettività, li mandiamo all’estero. Sì, perché, venute meno Londra e l’Inghilterra, resta solo l’Europa continentale che non se la passa proprio bene. Anche la Germania mostra la corda. Per decenni ha fatto affari con la Cina. Adesso la Cina esporta le macchine che un tempo importava dalla Germania. Hanno imparato a farle. Ne hanno copiato i brevetti e il costo del lavoro, da quelle parti, è una pacchia. Peraltro aggiungeteci che anche la Cina è in crisi, anche se non lo dice e voi non lo leggete da nessuna parte. Crisi di sovrapproduzione. E prezzi in caduta libera e ditte che falliscono in serie soprattutto nel settore immobiliare. Addirittura i cinesi svendono le loro macchine in Europa.

Anche le macchine per il settore moda, da sempre monopolio italiano, subiscono la concorrenza cinese. Insomma, gli orizzonti non sono proprio tersi e luminosi. Lo hanno capito in America, dove la Fed ha ridotto di 50 punti il tasso di interesse e punta sul rilancio del mercato interno.

In Europa la signora Lagarde ha il braccino corto: 25 punti di riduzione sono pure troppi, secondo lei. Il problema, dice, sono i salari, non i tassi. Beh, se la signora Lagarde spera che in Europa si combatta la concorrenza cinese portando i salari al livello asiatico, stiamo freschi. Anche Mario Draghi, finalmente, si è reso conto che con l’ipercapitalismo galoppante non si va da nessuna parte. Ha riscoperto gli insegnamenti del suo (e nostro) antico maestro Federico Caffè. Alla buonora. Dice che bisogna finanziare lo sviluppo con il debito pubblico da finanziare con l’intervento della Banca centrale europea. Insomma, il divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia non fu una buona cosa.

Il problema, come dicevo agli studenti di Fes raccontando la storia di Faust e di Mefistofele alle prese con l’invenzione della carta moneta, non è la moneta ma la saggezza di chi la utilizza. Abbiamo anche bisogno di economia pubblica. Dobbiamo fare marcia indietro rispetto sempre alle verità affermate da Draghi, quando era al Tesoro italiano, che portarono alla vendita, anzi alla svendita, del patrimonio pubblico. Peccato che oggi il nuovo Draghi manchi di leve di comando. Dobbiamo accontentarci di quel che resta. Compreso un commissario europeo alla Coesione, come Raffaele Fitto, che conosce bene i problemi e i meccanismi del Fondo e anche i guai del Mezzogiorno. Certo il ruolo adesso è cambiato. Fitto dovrà controllare. Sarà divertente. Il Pnrr doveva destinare i fondi europei per il 70% al Sud, per la perequazione e la coesione, altro che resilienza. Ne è stato assegnato il 40%, difficile da spendere e in predicato di trasvolare al Nord. Ma adesso sarà Fitto a vigilare. Provando a sintetizzare. La Cina non tira come una volta. La Germania è in affanno, la “locomotiva lombardo-veneta” cerca disperatamente l’autonomia differenziata per salvarsi, l’Europa non sa che pesci prendere, stretta tra la speculazione e la guerra russo-ucraina. E il Sud? Mancano le risorse, punto. Si parte da qui. Dice, ma lo sapete che la Germania tra il 1989 e il 2009 ha speso 1.500 miliardi per la riunificazione dei territori dell’Est? E lo sapete che in Italia, tra gli anni Cinquanta ed il 1993, ne sono stati spesi solo 350? Senza contare l’imbroglio delle spese storiche che in Italia ha drenato risorse pubbliche dal Sud al Nord per 70 anni. Allora? Resta il Fondo di sviluppo e coesione, già usato come “bancomat” per le emergenze, in passato, che potrà impinguare il tesoretto delle risorse europee pure quelle programmate per il settennio 2020/2027 e da spendere bene possibilmente. Circa 4.5 miliardi alla Puglia. È ossigeno puro. Speriamo che il paziente reagisca.

C’è tanto da fare: infrastrutture, scuole, città, sanità, imprese. L’elenco è lungo. Ma bisogna cominciare scovando imprese e idee nuove, start-up coraggiose in grado di scandagliare il mare profondo della innovazione della tecnologia, che scommettano su un’economia capace di produrre al riparo della scorciatoia dei salari, che guardi oltre la concorrenza cinese, lasci andare per la sua strada anche la locomotiva tedesca e si attrezzi per attraversare un tempo nuovo dove il collegamento con i territori dovrà tornare a essere fondamentale.

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