Le immancabili polemiche, che ogni anno accompagnano la festa della Liberazione, quest’anno si sono rivelate forse più aspre e lunghe del solito. Non solo per la cifra tonda della ricorrenza, ma anche per la sovrapposizione con i giorni di lutto nazionale dichiarati dal governo Meloni in seguito alla morte di papa Francesco. Qualcuno, infatti, ha visto in questa scelta il tentativo di ridimensionare le celebrazioni per l’80esimo anniversario della sconfitta del nazifascismo. Nessuno, però, ha rivolto un pensiero ai lavoratori e si è chiesto: ma, in Italia e in particolare al Sud, chi produce è effettivamente libero? Oppure è soggiogato da dinamiche che non sono violente come quelle imposte dai nazifascisti, ma che per certi versi rischiano di rivelarsi altrettanto oppressive, ledendo i suoi diritti fondamentali e soffocando le sue legittime aspirazioni?
Per rispondere a questo interrogativo, che a certi leader di partiti e sindacati sembra interessare meno della sterile polemica politica, basta analizzare i dati, a cominciare da quelli sulle morti bianche. La tragica fine di un operaio 59enne, precipitato da un’impalcatura di sette metri nel cantiere di Apricena dove lavorava in regime di misura alternativa alla detenzione, ha riacceso i riflettori sul tema della sicurezza.
Dati Inail alla mano, nel primo bimestre del 2025 le denunce di infortuni sul lavoro sono diminuite di poco più di cinque punti percentuali rispetto allo stesso periodo del 2024, pur toccando la spropositata cifra di 61.641 su tutto in territorio nazionale. I decessi, invece, sono aumentati del 6,6% e la Puglia, purtroppo, si inserisce perfettamente in questo trend: le morti bianche sono passate dalle sette del primo bimestre del 2024 alle nove dello stesso periodo del 2025, con un’incidenza altissima di cadute di operai e materiali (come il caso di Apricena dimostra) e di incidenti sui mezzi di trasporto. Insomma, non sembra che i lavoratori siano stati liberati dal rischio di uscire di casa al mattino e di non farvi ritorno a sera.
Così come non sembra che i lavoratori siano stati liberati dal dramma dei salari bassi. Tanto che, come ha evidenziato l’economista Richard Blundell, avere un’occupazione non costituisce più una garanzia sufficiente per evitare la povertà. D’altra parte, incrociando i dati di Istat e Ocse, tra 2013 e 2023 il livello medio degli stipendi è aumentato di circa il 5% a fronte di un indice armonizzato dei prezzi cresciuto di oltre 17 punti, col risultato che le retribuzioni lorde hanno perso il 4,5% di potere d’acquisto. E la Cgia di Mestre ha evidenziato le persistenti disparità tra le retribuzioni medie al Nord e quelle al Sud: basti pensare che, a Milano, un lavoratore percepisce in media 2.642 euro al mese, mentre a Vibo Valentia la busta paga supera a stento quota mille euro. I lavoratori e le loro famiglie, dunque, sono stati liberati dal rischio della povertà? Non sembra, se si osserva l’inarrestabile diffusione dei “working poors”.
E non si possono chiudere gli occhi davanti alla condizione di donne e giovani. Per le prime un lavoro stabile e ben retribuito resta un miraggio soprattutto al Sud dove, secondo l’Istat, il tasso di occupazione femminile si attesta al 56,5% ed è inferiore di quasi venti punti rispetto a quello registrato al Nord. Senza dimenticare che il 16% delle donne è costretta a lasciare il lavoro dopo la maternità, che il 18,5% è vittima del lavoro povero e che quelle che ricoprono posizioni dirigenziali non guadagnano mediamente più di 33,6 euro l’ora. Quanto ai giovani, basta riflettere sul dato recentemente diffuso dalla Cgia di Mestre: tra 2014 e 2024 l’Italia ha visto partire (o forse sarebbe più corretto “fuggire”) circa 750mila giovani, di cui 730mila meridionali, con province come quelle di Bari e Potenza che ne hanno persi rispettivamente 37mila e 16mila. Vuol dire che le donne non sono state ancora liberate da gender gap in materia di accesso e retribuzione del lavoro, mentre i giovani non si sono ancora “svincolati” dalla necessità di cercare prospettive di crescita lontano dal luogo di origine. Altro che festa, quindi.
In definitiva, la Liberazione va festeggiata? Certo, non c’è dubbio. Ma bisogna fare in modo che il 25 aprile, finora sinonimo di affrancamento dalla dittatura nazifascista, si traduca nel trionfo effettivo dei diritti, a cominciare da quelli dei dei lavoratori. Il che significa garantire sicurezza, cancellare la vergogna delle morti bianche e degli infortuni, garantire retribuzioni dignitose, azzerare progressivamente i divari territoriali e di genere, trattenere i giovani sul territorio e fare in modo che possano tornare nel luogo di origine. Questa è Liberazione. Altrimenti il 25 aprile continuerà a essere una festa divisiva, utile soltanto a chi, da una parte e dall’altra del Parlamento, vuole spuntare qualche decimale di consenso in più.
Bentornato,
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