Lo spopolamento delle terre di mezzo della nazione italiana è arrivato al punto di non ritorno. Così almeno sostengono gli estensori del Piano strategico nazionale delle aree interne redatto dal Dipartimento per le Politiche di coesione e per il Sud della Presidenza del Consiglio dei ministri. Si potrebbe chiudere la questione con una alzata di spalle e tirare avanti. Dal Dipartimento per le Politiche di coesione e per il Sud e dal Governo ci si dovrebbe aspettare qualcosa di più e magari di diverso.
Lo spopolamento delle terre di mezzo non è un fenomeno recente. Diciamo che è iniziato negli anni del boom economico, all’indomani della seconda guerra mondiale, allorché i contadini meridionali emigrarono in massa verso il Nord del Paese e in Europa a trasformarsi in operai e manovali per sostenere con le loro braccia il “volo” del Vecchio Continente e quello della parte settentrionale dell’Italia alimentandone il miracolo. Da allora prese avvio l’abbandono delle campagne. Si produsse dapprima il fenomeno della senilizzazione e della femminilizzazione, poi, complice la politica nazionale di marginalizzazione di una agricoltura scarsamente meccanizzata e parcellizzata oltre che priva di qualsiasi supporto di conservazione/trasformazione/commercializzazione, quello dell’abbandono. Troppo vecchia e malandata per sostenerla, soprattutto dopo il fallimento o, se volete, lo scarso successo della riforma fondiaria postbellica.
Ormai dominava l’idea mansholtiana dell’agricoltura estensiva industrializzata, varata dall’allora commissario europeo Sicco Mansholt e sposata dall’Europa e fatta propria dal Governo italiano interessato a sostenere l’agricoltura padana più che quella mediterranea del Sud. Era il 1968 e in Europa e in Italia era già in atto lo spopolamento delle campagne prodromo dello spopolamento delle terre di mezzo. In campagna ormai si andava per il fabbisogno familiare, per tenere in piedi la tradizione anche e la memoria, il sabato e la domenica e, nella bella stagione, la mattina presto e il pomeriggio. Le politiche europee fecero il resto. Le misure di integrazione dei prezzi delle produzioni meridionali, complici le interessate disattenzioni dei governi nazionali, produssero il risultato di alleviare la vita dei piccoli proprietari favorendo tuttavia le rendite speculative dei grandi attraverso le integrazioni dei redditi che contribuirono a lasciar andare le produzioni al loro destino. Si arrivò poi agli incentivi per sradicare gli impianti, a partire dai vigneti, e intanto la meravigliosa biodiversità dell’agricoltura mediterranea spariva dalle scene (salvo essere riscoperta di recente dall’Unesco che l’ha dichiarata, il 29 marzo 2024, patrimonio dell’Umanità).
Nel frattempo era arrivata anche l’industrializzazione forzata a Sud: i grandi impianti siderurgici e petroliferi, le grandi centrali elettriche, le produzioni chimiche. Tutta roba inquinante e mortifera ma che aveva il pregio di sfamare intere città. Ovviamente bisognava pagare un prezzo. E questo prezzo era rappresentato dalla condanna a morte dell’agricoltura meridionale, completamente tagliata fuori dagli orizzonti nazionali. Solo alla fine degli anni Novanta, con il tramonto delle vecchie politiche assistenziali europee e nazionali, ebbe inizio il recupero delle produzioni vinicole e olivicole e cerealicole verso standard di qualità elevati e legati alle tradizioni autoctone. Il resto della produzione mediterranea, a cominciare da quella orticola, anch’essa di grande tradizione e pregio, rimase affidata a cooperative e buone pratiche che non sono mai riuscite a varcare i confini della marginalità.
Intanto la modernità e il cosiddetto progresso avevano spinto la scolarizzazione di massa e soprattutto avevano alimentato il fenomeno dell’inurbamento della popolazione innescando il processo di emigrazione dei giovani che non erano più contadini e braccianti o manovali ma figure altamente scolarizzate e professionalmente ricercate oltre che intellettualmente pregevoli. Il fenomeno, soprattutto negli anni più recenti, ha depauperato il Sud delle sue risorse umane migliori che comportavano – beffa unita al danno – un drenaggio anche delle risorse finanziarie pubbliche e private investite per la loro formazione. Stimando in circa 100mila unità il numero di giovani diplomati e laureati migrati dal Mezzogiorno annualmente nell’ultimo decennio, è facile quantificare in più o meno 20 miliardi di euro annui le risorse finanziarie spostate da Sud a Nord, ove si calcoli che per portare alla laurea un ragazzo servono non meno di 200mila euro.
Partì da lì il progressivo impoverimento di quelle che il Governo nazionale chiamava aree interne e Manlio Rossi Doria, da Portici, sito regale sede della gloriosa facoltà di agraria della storica università napoletana “Federico II”, definiva “terre dell’osso” secondo uno schema interpretativo che metteva in guardia dai rischi dell’emarginazione dell’economia interna e montana che via via avrebbe comportato l’inurbamento e quindi l’emigrazione della popolazione.
Le statistiche degli ultimi decenni parlano di fenomeni migratori senza precedenti. Circa 100mila, appunto, erano e sono i giovani che partivano e partono da Sud ogni anno. La popolazione meridionale si contraeva e continua a ridursi, mentre il territorio inaridisce a vista d’occhio come un lago sotto l’effetto di un solleone che provoca evaporazioni senza sosta. I giovani meridionali migravano verso le metropoli del nord dell’Italia, dell’Europa e del mondo. La gente a Sud si concentrava sulle coste oltre che nelle poche metropoli. Ed ebbe inizio l’abbandono delle terre di mezzo che la politica chiamava aree interne e gli economisti, riprendendo la similitudine di Rossi Doria, terre dell’osso.
Da sempre sono mancate, in realtà, le politiche di sostegno di questi territori a contrasto dello spopolamento. È mancata soprattutto una visione dello sviluppo del Paese che puntasse a creare un sistema territoriale integrato Nord-Sud, montagna-pianura, campagna-città, agricoltura-industria, servizi-innovazione, pubblico-privato. Negli anni Settanta e Ottanta i governi pensarono di aver scoperto l’uovo di Colombo. Era l’epoca della prima globalizzazione. Si era capito che, spostandosi dal centro verso la periferia, i costi industriali, grazie al crollo del costo del lavoro, precipitavano, la competitività delle imprese cresceva meravigliosamente e le esportazioni correvano come un cavallo pazzo. Fu facile considerare il Sud alla stregua dei Paesi sottosviluppati e si avviarono politiche raffazzonate di incentivazione degli investimenti industriali nel Meridione. Nacquero i cosiddetti distretti industriali che parvero poter regalare al Sud un’insperata stagione di sviluppo. Fu il massimo delle politiche per le aree interne. Ovviamente di rilancio delle campagne nemmeno a parlarne e, quanto alle terre di mezzo, queste si rivelarono buone per attrarre speculatori e attività inquinanti e senza futuro. Peraltro la globalizzazione allargava i suoi confini sino a comprendere Paesi e popoli dell’estrema periferia del pianeta rivelatisi pronti a vendere il proprio lavoro davvero per un piatto di riso. Conclusione? Le politiche di sostegno dell’industrializzazione nel Sud si rivelarono per quel che erano, ossia un fallimento. Conseguenza? Il definitivo spopolamento delle terre di mezzo.
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