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Solo un’Europa davvero unita sarà in grado di difendere i diritti e la libertà dei popoli

Ogni difesa eccessa congela il calore della pace. Il poeta romano Stazio lo aveva bene espresso duemila anni fa nella sua Tebaide. Papa Giovanni II ne aveva ribadito a larghe maglie la controvertibilità della difesa nella sua enciclica Redemptor Hominis del 4 marzo 1979. L’Europa invece ne sta replicando la sua esemplarità per una “nuova guerra fredda”.

Io sono convinto che dobbiamo ripartire dallo spirito e dalla visione dei grandi Padri fondatori del progetto europeo. Possiamo farlo riducendo la distanza che i nostri cittadini avvertono rispetto alle istituzioni europee, puntando all’efficienza e alla democraticità dei processi decisionali e restituendo al disegno europeo una vera identità culturale condivisa, un’anima europea comune che prevalga sugli egoismi nazionali nel nome di solidarietà, libertà, eguaglianza, giustizia: valori così faticosamente emersi dalla barbarie, dalle guerre, dai totalitarismi, dalle persecuzioni. Le nostre comuni radici ci vincolano a un comune destino. E io credo che il meraviglioso sogno dell’Europa avrà pieno compimento quando capiremo che il nostro dovere, comune e collettivo, è, per richiamare la norma forse più bella della Costituzione italiana del 1948, «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale dell’Unione Europea».

Questa è una parte di quanto leggiamo nella prefazione dell’edizione ufficiale del 2017 del nostro Senato per il Manifesto di Ventotene.

Le parole di Grasso sono prudenti per il tempo in cui sono scritte. E sono scritte quando ce n’era bisogno di quel che nessuno aveva bisogno. Cosa? L’unità ideale. In una comunità che conta quasi 750 milioni di individui come quella europea, forse soltanto un terzo di essi si sente effettivo cittadino europeo. La cittadinanza europea è stata sin dalla sua istituzione attraverso gli articoli 39-46 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, una adoptio iuris libertatis, ovvero una convenzione giuridica parasociale. I cittadini della nostra Europa non avvertono all’interno dei parametri del loro statuto giuridico quella “garanzia di libertà” intesa come “esplicazione della propria personalità privata”, ma si configurano più come sudditi di un grande creditore.

In una simile articolazione geopolitica, dove il blocco occidentale continua ad essere diviso tra atlantisti e pacifisti, il continente europeo si pone per forza di un gioco che a torto definiamo strategico, come medium inter pares e non primus. Ciò contraddistingue parecchio la capacità del raggio d’azione che pertiene a Bruxelles, dal momento che esso deve costituire per necessità l’elemento passivante, attutivo dei colpi provenienti dagli estremi anglofoni e russofoni. Riesce cioè a funzionare l’Europa soltanto come ambasciatore e non legislatore nello scacchiere internazionale. A maggior ragione, un seppur così limitato ruolo politico non troppo alieno dai suoi originari obiettivi costituivi e fondativi risalenti già al ’57 e poi riconfermati nel 2007, potrebbe essere decisivo per il contatto di un rinascente schema politico ideologico tra Occidente e Oriente come quello attuale, e potrebbe evitare le stesse tipologie conflittuali di natura armata della stessa genesi storica che invalse per la guerra fredda.

Nel caso contrario in cui si veda invece un cuscinetto satellite di uno Stato ma frammentato interiormente tra discrasie partitiche e faziosi movimenti lobbistici, la statura ontologica di congregazione quale quella europea, non può assolvere al proprio compito di mantenere lo status libertatis garantito dal diritto internazionale, ma anzi attraverso la sua mutazione in disgregazione di piccole entità geopolitiche, si assottiglia prossima all’orlo di un conflitto dalla cui decisione si vede peraltro esclusa.

L’insicurezza economica che nell’ultimo decennio ha attraversato il blocco europeo è solo una minima reazione della sua graduale disgregazione che ha cercato di tenersi organica attraverso una cospicua normazione nel settore della tutela della pubblica impresa. Non è possibile negare dunque che sia stata fautrice di una strategia servilissima verso i colossi delle lobby internazionali, ma anche è impossibile affermare a nostro discapito che l’idioma a oggi condiviso sia quello di una koinè culturale e sociale che unifica e identifica la sua fisionomia politica.

L’Europa è indifesa, per questo accorre oggi alla difesa, ma non dell’Ucraina, ma di sé, sotto il titolo di “riarmo”, e schierandosi non in autonomia, ma in afonia, isolata, con l’Ucraina. Il tono quasi edittale che Ursula von der Leyen usava qualche giorno fa nel suo annuncio di voler riarmare l’Europa omettendo tuttavia in quale contesto specifico operativo, è quello che sarà recuperato numerose volte nella storia moderna proprio dal modello di Urbano II, ossia il papa della cosiddetta “Prima crociata” contro l’Oriente. Le tempistiche logistiche e le modalità espressive della Presidente della Commissione europea coincidono con lo stile urbaniano crociatesco, ma inquietano, se si pensa alla proposta di investimento di 800 miliardi per equipaggiare un fronte che già parte diviso prima di arrivare a Kiev. Dopo l’indizione di quella guerra, anch’essa nominata dall’investitura papale “consacrata alla difesa della croce”, ci fu due secoli dopo un evento chiamato “Iubilaeum” da Papa Bonifacio VIII e che era stato istituito dal pontefice proprio per concedere una indulgenza universale, ossia una sospensione di tuti i conflitti armati tesa a una finale pacificazione. Quell’istituto divenuto poi il fondamento liturgico della dottrina cattolica, era nato dunque per la Pace, ed è giunto a noi oggi, nel 2025 come “Giubileo”.

Ci sorprende allora come l’Italia che è un Paese pleno iure impregnato di quella dottrina cattolica nella sua linfa costituzionale, non rispecchi in un momento di altissima tensione politica e militare, a sua volta riversa nei meandri civili della società, l’esempio di questo presente Giubileo francescano per ratificare all’Europa la sua soluzione più contraddistinta istituzionale della pace. Ecco che allora la validità di questo Giubileo all’interno della nostra coscienza politica non coincide con la nostra coerenza etica, laddove la politica senza etica è senza la legge di un popolo. Il Governo italiano dovrebbe tutelare soprattutto la nostra etica, se ancora l’eredità di Moro la si voglia docente morale della nostra politica. Se l’Italia aderisce al diritto della pace internazionale, dovrebbe farsi il vessillo principe di un nuovo “Giubileo d’Europa”.

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