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Si può ancora avere fiducia nella giustizia di casa nostra?

C’è un filo sottile – forse nemmeno tanto – che unisce tre notizie apparentemente distanti tra loro come la riapertura delle indagini sull’omicidio di Chiara Poggi, il nuovo processo d’appello per morte di Serena Mollicone e la condanna definitiva dell’ex giudice Giuseppe De Benedictis per corruzione. A legare queste vicende, così lontane geograficamente e ormai anche risalenti nel tempo, è il senso di sfiducia nella giustizia che ciascuna di esse è in grado di indurre nell’italiano medio. Partiamo dal delitto Garlasco. La Procura di Pavia ha notificato un avviso di garanzia ad Andrea Sempio, amico del fratello di Chiara Poggi, uccisa il 13 agosto 2007. L’ennesima svolta nella vicenda, però, avviene a quasi 18 anni di distanza dai fatti e, soprattutto, quando in carcere si trova già Alberto Stasi, il fidanzato di Chiara, condannato a 16 anni di reclusione dopo ben cinque gradi di giudizio (e due assoluzioni all’attivo). Il paradosso è proprio questo: la magistratura riapre il caso e punta su altro (presunto) colpevole dopo che una persona è già stata condannata e ha già scontato dieci anni dei 16 che le sono stati inflitti. Vi sembra normale? A me, francamente, no.

Come non mi sembra normale che, a 24 anni di distanza, la giustizia italiana non sia stata ancora in grado di dare un volto e un nome all’assassino di Serena Mollicone. Era il primo giugno 2001 quando il corpo senza vita della ragazza fu trovato in un boschetto ad Arce, in provincia di Frosinone. Da allora, indagini e processi non hanno portato ad alcuna certezza.

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Tanto che, due giorni fa, la Cassazione ha ordinato un nuovo processo d’appello per l’ex carabiniere Franco Mottola, la moglie Anna Maria e il figlio Marco, accusati dell’omicidio di Serena. Morale della favola: 24 anni non sono bastati per scrivere la parola fine. E in questo tempo è morto anche il padre di Serena che invano ha atteso giustizia fino all’ultimo giorno della sua vita.

La terza vicenda non è un cold case, ma una brutta storia di corruzione in atti giudiziari. E riguarda l’ex magistrato pugliese Giuseppe De Benedictis, condannato in via definitiva a sette anni di reclusione per aver intascato mazzette in cambio di quattro provvedimenti di scarcerazione in favore di clienti dell’avvocato Giancarlo Chiariello che si è invece beccato sei anni. Per De Benedictis si tratta della seconda condanna che passa in giudicato, visto che nel 2024 era diventata definitiva quella a nove anni per la faccenda dell’arsenale con oltre 200 tra armi e munizioni trovato nella sua villa ad Andria. Insomma, uno si aspetta che certe delicate decisioni, come quelle sulla libertà delle persone, vengano prese da un giudice imparziale e corretto, salvo poi scoprire che quelle stesse decisioni sono state frutto di corruzione.

Le tre vicende si verificano in un momento di forte tensione tra Governo e Anm per l’annunciata separazione delle carriere tra pm e giudici. I magistrati si oppongono alla riforma temendo che questa possa ledere la loro autonomia e indipendenza e lamentano il tentativo, da parte della politica, di delegittimarli agli occhi dell’opinione pubblica. La verità, però, è un’altra: a minare la credibilità delle toghe non sono le leggi che un Governo punta ad approvare col sostegno di un Parlamento democraticamente eletto, ma la lentezza e le inefficienze dei tribunali alle quali si aggiungono episodi gravi come quello di De Benedictis. Come si può avere fiducia in una giustizia che prima manda in galera una persona per omicidio e poi, a 18 anni dai fatti, riapre il caso ipotizzando che il colpevole sia un altro? Come si può avere fiducia in una giustizia che in 24 anni non riesce a dare un volto all’assassino di una ragazza? Come si può avere fiducia nella giustizia sapendo che nei tribunali c’è chi non resiste al richiamo delle mazzette? Ecco, è a queste domande che qualcuno dovrebbe rispondere.

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